Gorilla Position #1 – La finzione realistica del wrestling

“Wrestling is ballet, with violence” (Jesse “The Body” Ventura)


Il wrestling è come una danza, violenta. Definizione che inquadra perfettamente molti degli aspetti che rendono il wrestling non solo sport, ma anche, se non soprattutto, intrattenimento. Perché nella finzione realistica che il wrestling vuole rappresentare, ciò che si vede sul ring quando suona la campanella non è altro che un passo a due (o più) che mette il punto esclamativo finale a ciò che nasce nella testa del Creative Team, dei Producer, di chi prepara musiche, costumi e oggetti di scena, di chi studia frasi, recitazione, espressività e nomi. Benvenuti dunque alla prima edizione del Gorilla Position, in cui Andrea “The Philosopher of Violence” Samele, il sottoscritto, condividerà con voi temi e riflessioni su tutto ciò che precede l’esecuzione lottata di un match.

Ogni forma artistica ha i suoi crismi, con la finalità più o meno dichiarata di suscitare nel pubblico un’emozione, un coinvolgimento. E per farlo, cerca di raccontare nella miglior maniera possibile una storia. Che decontestualizzi lo spettatore dalla posizione in cui si trova, sia essa un palazzetto, un divano o il proprio WC, e lo porti a immedesimarsi, a vivere sulla propria pelle, nel caso del wrestling, i brividi, le peripezie e i trionfi di questo o quel personaggio. Nella speranza, in caso di clamoroso insuccesso (qualcuno, tossendo, ha detto RAW?), di avere sempre la carta igienica a portata di mano.

Riuscire a creare contenuti interessanti con una programmazione così ampia e a stretto giro di posta non è certo la cosa più semplice del mondo. Però volendo tracciare un percorso narrativo, si potrebbe dire che si parte dal personaggio, cui si assegna una storyline, degli obiettivi, li si sviluppa nel corso del tempo e li si conclude con il giusto grado di coerente e incanalata violenza. È contestualizzandolo, che si sublima un incontro ben combattuto, non viceversa.

IL SUCCESSO DI UNA FAIDA DIPENDE DA COME CI VIENE RACCONTATA

Come avreste reagito, foste stati in Matt Hardy, quando Edge vi ha soffiato la donzella (Lita, peraltro) proprio da sotto il naso? Feud of the year per Pro Wrestling Illustrated nel 2005, assegnato a due che in quel periodo erano midcarder più o meno di lusso. Il più stagionato dei fratelli Hardy vive una love story tutta borchie e cuoricini con la donna della sua vita. Improvvisamente, tradito da lei e dall’amico rivelatosi approfittatore, arrivista e senza scrupoli, Matt sprofonda nel baratro: perde incontri a ripetizione, scompare da ogni trasmissione, viene licenziato.

Passa del tempo e arriva il momento del riscatto: Matt assalta Edge nel backstage, il pubblico lo segue e lo esalta, viene assunto nuovamente dalla WWE e la faida esplode. Sangue, gimmick match (Steel Cage, Ladder), momenti iconici (il leg drop di Matt dalla cima della gabbia) e frasi caratteristiche (“I will not die!”). Un feud talmente “personal”, talmente pieno di senso per i protagonisti, chiamati a un certo punto con i loro nomi veri, (Adam/Edge ed Amy/Lita) che distinguere cosa fosse reale e cosa fosse scriptato era davvero difficile, come ha di recente affermato lo stesso Hardy, ora in AEW.

La gestione di Daniel Bryan passò nel 2013 dall’essere un potenziale scempio all’essere la storyline dell’anno. Vittima della cattiva considerazione del padre padrone Vince McMahon, Bryan venne etichettato come B+ player, un cavallo non vincente. Fu la connection con il pubblico a creare una delle underdog run più di successo che ci siano mai state. Spinta nel modo giusto, dando a un face sottovalutato dei nemici potenti (l’Authority) e apparentemente soverchianti. Facendolo umiliare, ripetutamente, da Triple H, da Randy Orton, dallo Shield, da decisioni controverse in match titolati, dalla Wyatt Family.

L’occasione costantemente a portata di mano e sempre rimandata, come capita nella vita a migliaia di persone meritevoli che si ritrovano loro malgrado nella mediocrità di un B+. E poi la rinascita, sulle note della cavalcata delle Valchirie, con il pubblico al suo fianco, il match contro Triple H a Wrestlemania per ottenere la chance titolata e l’apoteosi finale nel Wrestlemania Moment per eccellenza dell’ultima decade (insieme alla fine della streak di Undertaker), tra gli YES! YES! YES! dell’intera arena di New Orleans.

REALISMO E CREDIBILITA’

Storyline lineari, se vogliamo molto semplici e reali come tematiche, ma ricche di elementi e costruzione, con un tono ben preciso, con le voci dei protagonisti forti e chiare, senza arzigogoli a renderle iper complicate o alla stregua di telenovelas da seconda serata. Storyline che fanno rabbia, se pensiamo alla crisi creativa cui assistiamo ora. Segmenti senza alcuna logica come il noiosissimo family drama tra Rollins, Murphy e i Mysterio. Wrestler capaci ma privi di alcuna costruzione (Ricochet, Aleister Black, ma la lista è lunga e non solo in WWE) e quindi totalmente poco interessanti.

E altri che sono assolutamente over ma vengono gestiti totalmente al contrario, come il Fiend, mostro terrificante e teoricamente invincibile che perde ogni volta che c’è qualcosa che conta in ballo. Oppure lo stesso Randy Orton di qualche giorno fa a RAW. “Sono un 14 volte campione del mondo. Non sono più il Legend Killer, sono io la Leggenda ora. Sono il più forte di tutti”. E perde. Subito. Alla prima difesa. Cioè. Ok, il peccato originale risiede nell’averlo fatto uscire vincitore da Hell in a Cell senza nessuna ragione plausibile. Ma la matematica in questo caso non aiuta, meno per meno non fa più: disastro per disastro fa disastro al quadrato. Se non altro da qui, a partire da Survivor Series in poi, si può solo migliorare.

Lo spreco di talento cui assistiamo non coinvolge quindi solo personaggi in via di definizione, ma anche grossi calibri. A NXT, Johnny Gargano vs Tommaso Ciampa fu un capolavoro, semplicemente un autentico capolavoro. E ora ce li ritroviamo l’uno a fare il pagliaccio e l’altro con una direzione che solo nell’ultima puntata sembra aver acquisito un lievissimo barlume di concretezza. A testimonianza che senza una narrazione solida, anche i bravi performer sfociano nel disinteresse o nel ridicolo.

Il realismo e la credibilità nel mondo del wrestling sono fondamentali, perché altrimenti siamo di fronte a due action figures poligonali e sudate che si prendono a ceffoni. Magari anche bene eh, ma perché?

Mettere in scena uno spettacolo, che ha un senso e che ha un contorno adeguato, dà alle tecniche e al lottato una valorizzazione ben precisa. Non la fredda e finta esecuzione di figure studiate a tavolino, ma l’emozionale esibizione di una trama reale, di una verità, che se ben presentata, può rendere il tutto tremendamente bello e appagante per il palato di chi guarda (e scrive). Così come può esserlo una cena con un antipasto di tartare, un buon filetto e un immancabile bicchiere di vino rosso.

“L’arte è una menzogna che ci consente di riconoscere la verità.” (P. Picasso)

Andrea Samele
Andrea Samele
Laureato in filosofia, amante della creatività, della scrittura e del suono musicale di una chop. Appassionato di wrestling di lunga data per la capacità di creare personaggi e storyline in grado di coinvolgere gli spettatori. Per Tuttowrestling.com curo l'AEW Planet.
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