The Codebreaker #12 – Never before, never again

Never before, never again. Eh già, quante volte abbiamo sentito queste affermazioni nelle ultime settimane, ormai abbiamo perso il conto, quattro parole automaticamente abbinate all'inedito tag-team composto da The Rock e John Cena a Survivor Series. Uno dei quattro più importanti, almeno sulla carta, ppv di ogni annata WWE era principalmente concentrato sulla convivenza tra il campione della gente e il leader della Cenation, l'argomento più pubblicizzato, trattato, discusso degli ultimi tempi.
Le accuse verbali, i pochi ma ricchi di adrenalina i loro incontri e scontri di sguardi, l'attacco psicologico, ambientale e fisico subito da John Cena hanno rappresentato il prima, durante e dopo della forzata convivenza, peraltro richiesta a sorpresa dallo stesso rapper di Boston e destinata ad accendere ulteriormente il feud n°1 di Wrestlemania. In questo numero di Codebreaker mi soffermo sul concetto Never before, never again, ma non voglio limitarmi a The Rock vs John Cena, troppo facile, troppo scontato, troppo ripetitivo.
Never before, never again. Per molti episodi, fatti accaduti alle Survivor Series rappresenterebbe il titolo più azzeccato, saremmo sul pezzo nel miglior modo possibile, potrebbe trattarsi di uno slogan pubblicitario ad effetto, del titolo da prima pagina destinato a rendere assolutamente introvabile l'ipotetico quotidiano della federazione, il messaggio di apertura del tg sportivo in grado di lasciare tutti gli appassionati immobili sulla poltrona per ore e ore. Si tratta di una considerazione che, purtroppo in varie occasioni, la WWE può averci spinto a formulare presentandoci lottatori, rivalità, spettacoli talvolta di livello scadente, deludente, o comunque ben al di sotto non soltanto delle aspettative del comune fan di wrestling, ma del potenziale che caratterizza il lottatore di turno.
In quest'occasione voglio però guardare il bicchiere mezzo pieno, non perdere per strada gli attimi, i momenti, le mosse destinate a restare indelebili, o comunque per molto tempo saldamente residenti nei nostri ricordi. L'obiettivo? Non soltanto evidenziare quanto di buono abbia esaltato il tanto atteso ppv di novembre, ma per evidenziare come la WWE, nonostante le illustri partenze o indisponibilità di vari lottatori di spicco, abbia tutti i mezzi, le capacità e le possibilità per lasciare spazio alle proprie stelle, non necessariamente di prima fascia, offrire un prodotto non soltanto di qualità, ma capace di andare al di fuori della routine, finendo magari per lasciare i propri appassionati letteralmente a bocca aperta dinanzi a qualcosa di inatteso, imprevedibile, clamoroso, stupefacente.
Due nomi mi vengono subito in mente. Beth Phoenix, The Big Show. Dai tempi di Trish Stratus e Lita non seguo più la categoria femminile in maniera costante e appassionata, Mickie James e Melina hanno rappresentato le rare eccezioni positive negli ultimi anni, finchè non abbiamo conosciuto Beth Phoenix, a mio parere una forza della natura, assolutamente devastante. La sua difesa del titolo alle Survivor non aveva attirato la mia attenzione, il match femminile, troppo spesso, diventa un contorno, un riempimento dello show, finchè sul ring non sale qualcuna di un altro pianeta, come Beth Phoenix, la quale meriterebbe un'avversaria del suo livello, o almeno che le si avvicinasse per poter riaccendere i vecchi fasti di qualche tempo fa. Stavo per schiacciare il tasto avanti del registratore, per abbassare il volume, andarmi a prendere qualcosa da sgranocchiare, fino a quando Beth non ha tirato fuori l'asso dalla manica, il coniglio dal cilindro, la mossa strappa applausi: la finisher direttamente dal paletto. Un mix di potenza, acrobazia, coordinazione ed efficacia, un capolavoro.
Big Show vs Mark Henry. Il pubblico del Madison Square Garden è molto esigente, non perdona nulla, mastica grande wrestling da una vita, da sempre, in ogni occasione pretende che qualcuno dei propri beniamini contribuisca a scrivere un capitolo, un paragrafo, una pagina, o almeno una riga della storia. Dopo qualche minuto che la sfida aveva preso il via, sono arrivati i primi cori di disappunto, sicuramente legittimi, ma al tempo stesso ingiusti e immeritati; da due giganti simili sul ring non si possono pretendere acrobazie, mosse di tecnica sopraffina e continui capovolgimenti di fronte. Per aumentare il coinvolgimento del pubblico e alzare l'interesse della sfida, i bookers avrebbero dovuto optare per una sfida senza squalifiche, nella quale l'odio tra i due, arrivato a livelli incredibili, avrebbe avuto l'occasione per sfociare in un'autentica battaglia, dove tutto sarebbe stato possibile, consentito.
Così non è stato, pazienza, ma pure una sfida, sulla carta dominata dalla noia e dalla prevedibilità, ci ha offerto qualcosa di pazzesco, una scena inimmaginabile: The Big Show che vola dalla terza corda, capace di imitare l'indimenticato Macho Man Randy Savage. Quando ho capito le sue intenzioni, l'ho davvero stimato, ha sfidato l'equilibrio, il proprio peso, la totale mancanza di feeling con le mosse aeree pur di coronare un sogno, ovvero tornare campione del mondo. Alla fine non è riuscito nel proprio intento, ma quella gomitata volante, per un gigante della sua stazza, ha rappresentato un momento incredibile, meritevole di standing-ovation e minuti di holy shit nel mio salotto.
Lo sappiamo, il wrestling è fatto di momenti, attimi, episodi da ricordare. Never before, never again. Noi appassionati, soprattutto quelli di vecchia data che hanno conosciuto i vecchi fasti di una disciplina più unica che rara, ne siamo consapevoli: viviamo di adrenalina, follia, ci piace restare a bocca aperta, dire non l'avrei mai detto, non me lo sarei mai aspettato. In uno sport-entertainment sono le frasi che fanno più godere in assoluto e durante Survivor le ho pronunciate più volte, ma non si deve trattare di roba di straordinaria amministrazione, deve diventare l'ordinario, non sarà semplice, ma chi comanda ha i mezzi per renderlo possibile.