AEW Planet #74 – Le difficoltà di MJF e Danielson

La Road to Revolution procede a passo abbastanza incerto, tra cose che funzionano e altre che decisamente girano molto meno efficacemente. Tra color che son sospesi, secondo me, ci sono MJF e Bryan Danielson. Trattandosi di due fenomeni, è impossibile dire che il loro feud sia insufficiente. Anzi, l’hype in vista di Revolution è molto alto proprio perché c’è un percorso tracciato e consequenziale, per quanto non propriamente innovativo.
Ci sono le motivazioni, che partono da William Regal e arrivano ai giorni nostri con i vari promo di MJF. C’è la stipulazione, un 60 minutes Iron Man Match che per inciso è tra le (se non la) mie stipulazioni preferite. E c’è il tentativo di rendere identitarie queste due figure, di legittimarle. Detto che a dispetto del nome del prossimo PPV, il feud è stato molto pedissequo e con un sapore di già visto (le fatiche di [insert_MJF_opponent_name], i promo di MJF contro [insert_city_name] e contro [insert_MJF_opponent_family_members]…), mi vorrei focalizzare sull’ultimo punto del mio elenco di cui sopra, le identità. Siamo in presenza di due personaggi a un necessario punto di svolta della loro carriera in AEW.
MJF: IL DIAVOLO SENZA INFERNO
Per MJF, siamo alla prima run titolata, da portare avanti facendo vedere al mondo che lui è il diavolo. Ha preso in giro tutti, ha malmenato Regal e ora porterà l’inferno nella AEW. Inferno che per inciso non si è visto. MJF è rimasto sempre lo stesso e anzi, da campione gli è mancato un po’ il terreno sotto ai piedi. Perché prima era perfettamente organico che lui fosse l’outsider di turno, l’elemento di disturbo perenne, colui che poteva a torto o a ragione reclamare più spazio per far vedere alla federazione prima e al mondo poi chi lui sia. Ma ora di quella federazione lui è il volto, senza che questo comporti sorrisini, glitter e unicorni. No, New Day, non parlo di voi.
E proprio in questo salto, MJF ha perso un po’ la bussola: la radice del problema risiede nel modo in cui MJF ha vinto il titolo. Da heel, da wrestling. In una storia che invece parlava di vita, che era comprensibile, reale, assimilabile, identificabile. Identitaria, appunto. MJF affronta la gavetta, una serie di rifiuti o di “le faremo sapere”, arriva alla notorietà, tutti lo acclamano come il campione del futuro ma la sua chance ancora non arriva. Si ritrova davanti colui che ripetutamente lo ha messo in attesa, William Regal, con il suo Blackpool Combat Club composto prevalentemente da gente già affermata. Che quella chance l’ha avuta. E a più riprese.
Ed ecco che la storia di vita supera le dinamiche del wrestling e il pubblico lo capisce. MJF diventa, senza cambiare di una virgola il suo personaggio, fan favorite. Acclamato, tifato, osannato. Ripeto, senza che lui abbia mai cambiato realmente il suo modo di essere. Il finale di Full Gear ha cancellato la vita e ha ridato al wrestling la paternità del racconto. Autoreferenzialmente, il wrestling torna a parlare classicamente di wrestling, tra heel, face, solite banalità e frasi fatte. E l’inizio del regno di MJF è tutt’altro che eccezionale.
La spinta propulsiva della conquista, pur con le obiezioni di cui sopra sulle modalità, si esaurisce praticamente subito. Il suo ruolo da campione si sgonfia e per mettere una pezza ecco Bryan Danielson. Scelta giusta, perché a MJF serviva un avversario di livello per alzare i suoi colpi e Danielson era l’unico realmente disponibile. Tuttavia, anche l’alfiere dello Yes Movement ha i suoi grilli per la testa.
BRYAN DANIELSON: INVERSIONE DEI RUOLI
Già, perché Danielson arriva in pompa magna ad All Out ’21, subito dopo Adam Cole. Nel pieno della Summer of AEW che ha portato a Jacksonville anche CM Punk. E arriva dopo aver vinto titoli ed essere stato main eventer in WWE solo pochi mesi prima. Arriva in una federazione piena di talenti affamati, come lo stesso MJF, ma che ancora devono trovare il loro posto nel mondo. E al tempo stesso arriva insieme ad altri la cui collocazione, vuoi per biografia, vuoi per attitudini, diventa incredibilmente semplice da trovare. E così, vediamo Omega e Page feudare per il titolo con il giovane rampante che esautora il campione dei due mondi. Moxley che cura i suoi problemi e torna come anima della AEW. Adam Cole che si riunisce ad amici e parenti e riprende ciò che in WWE aveva interrotto, diventando number one contender.
CM Punk è il vecchio leone all’ultima corsa, che arranca, che fatica contro avversari mediocri ma che va sempre avanti. E Danielson? Danielson chi è? Nel suo stint AEW, così come nel Blackpool Combat Club, Bryan Danielson è sempre un passo indietro. Non come presenza in ring, sia chiaro, visti i numerosi match a 5 stelle o da 5 stelle. Ma come identità, come racconto, come caratterizzazione e impronta. Danielson è carismatico, amato dal pubblico, ma poi improvvisamente cambia direzione contro Adam Page. Fa il tracotante, mi viene quasi da dire giustamente. Fa valere il suo curriculum vitae, le sue statistiche su Wikipedia o Cagematch. Lui ha vinto, ovunque. Poi però improvvisamente torna in una dimensione di sottomissione. Nel Blackpool il riferimento è Moxley, lui detta la legge, lui parla di fratellanza di sangue dopo un match.
Lui diventa campione, senza che Danielson venga minimamente coinvolto in tutto il cursus honorum con CM Punk terminato come tutti sappiamo. E poi arriva William Regal da difendere, in assenza, perché il mentore ha cambiato indirizzo di residenza. Danielson si para dinnanzi a Moxley ma la storia si sgonfia prima ancora di cominciare, perché mancano i contenuti. Mancano i perché. Non c’è consequenzialità, Danielson va faccia a faccia con la sua stable ma non c’è un seguito e non c’è interazione nemmeno nelle successive Fatiche di Bryan contro MJF. E in questa narrazione che non funziona come dovrebbe, si è cercato di dipingere e spingere Bryan, ora, come colui che rincorre. Ruolo che in WWE poteva calzargli perfettamente, ma in AEW no. Come se essere face possa solo significare essere underdog (o fesso).
Anche perché gli altri “grandi vecchi” hanno tutti già vinto il/un titolo, da Jericho a Omega, da Moxley a Punk. Tutti coloro che avevano una storia di successo hanno già completato quella parte di racconto. Mentre Danielson non ci sta dicendo alcunché. Anzi, è imprigionato in questo ruolo a metà per cui non emerge il peso della forza di Bryan Danielson e al tempo stesso nemmeno le sue motivazioni né le ragioni per cui potrebbe farcela o non farcela e cosa questo significherebbe per lui.
Insomma, abbiamo un ibrido che ha perso la sua carta di identità. E questo pesa enormemente nel feud in corso. Da qui i promo vuoti, il ricorso all’insulto diffuso alle famiglie varie ed eventuali, i racconti esagerati, sovrabbondanti, poco funzionali di MJF sul suo passato per dimostrare che lui è uno stronzo (grazie, Takeshita!). Ovvero, tutti elementi extra-storyline, per compensare le lacune della costruzione in-storyline e in-character.
COME SAREBBE POTUTA ANDARE?
Certe volte, e vale lo stesso per la WWE e Sami Zayn, bisogna semplicemente lasciar andare la storia così com’è. MJF poteva conquistare il titolo soffrendo, coronando la sua redemption, pur da heel. Un unicum, quasi, nella storia del wrestling. Era una storia incredibile. Poteva quindi arrivare al titolo sapendo di avercela fatta, contro il guerriero per eccellenza, in rappresentanza del suo arcinemico Regal. Ma ora, sempre da quella stable, sempre da quel nemico, ecco che arriva Danielson, un’altra figura apparentemente irraggiungibile.
Hai battuto Moxley, caro MJF, ma con me non ce la puoi fare, perché io ho vinto in ROH, ho vinto in WWE. Quella stessa WWE che per te invece rappresenta un obiettivo. O in cui tu vuoi scappare con la coda tra le gambe perché lì non devi sporcarti le maniche. Prendi un microfono, snoccioli due o tre catchphrase, fai le faccine strane ogni volta che qualcuno ti parla sopra e poi se sei samoano ululi, vinci e passi due anni sul divanetto a guardare la puntata in HD nel locker room.
Mentre altri fanno lo sporco lavoro per te, ma questo già lo sai. Io i gomiti me li sono sbucciati, MJF. Ho dato sangue, lacrime, sudore, commozioni cerebrali. Io non sarei più dovuto tornare su un ring, mi avevano detto che non ce l’avrei più fatta. Anche io, MJF, sono stato messo in pausa. In attesa. Da altri, non per mie azioni, non per mie negligenze, non per cose su cui avessi voce in capitolo. Da circostanze esterne. Non ho mandato email, non ho piagnucolato contro Wiliam Regal o chiunque essi fossero. Non ho insultato tutto e tutti per poi andarmene in vacanza.
E ora sono qui, devil champ, perché voglio combattere con te. Perché io sono il migliore e voglio metterti alla prova. Vedere se puoi raggiungere il mio livello. Se Regal aveva visto giusto, incoronandoti campione. O se aveva visto giusto prendendoti a calci in culo ogni volta che ti ha detto che non eri pronto. E se non lo sarai, io mi prenderò il tuo titolo, che è l’unica cosa che hai. E così dimostrerò al mio mentore, William Regal, quanto io gli sia riconoscente.
Ora, a parte il mio pseudo promo, ciò che voglio che passi è che con un racconto del genere unisci elementi in-ring a vissuto extra ring e metti entrambi su un terreno comune. Entrambi hanno dovuto aspettare, vuoi a inizio carriera, vuoi in between. Entrambi hanno odiato le circostanze che li hanno costretti ad aspettare. Al tempo stesso, entrambi hanno una carriera per cui Danielson è affermato e MJF affamato. Crei un tessuto emotivo intorno a Danielson, rendi giustizia alla sua statura e al tempo stesso dai delle motivazioni per cui vuole il titolo e MJF.
Rendi MJF l’inseguitore in questo feud perché è il ruolo che doveva avere. In continuità con il feud precedente, in perenne bisogno di dimostrare dopo tutte le porte in faccia. Ma, appunto, Full Gear su questa dimensione ha passato il cancellino sulla lavagna. Non che non ci abbiano provato, come dicevo nell’introduzione. Perché MJF ha fatto riferimento alle commozioni cerebrali, a Regal, al titolo AEW come unica cosa di cui si fida in un mondo di traditori. Danielson a sua volta era partito baldanzoso e tronfio dicendo a MJF che no matter who, lui sarebbe arrivato a Revolution e che è qui per combattere. Hanno cercato, insomma, di mettere in linea gli ingredienti della ricetta: il tutto però senza soluzione di continuità.
Inframmezzando il tutto con match in cui Danielson doveva per forza sembrare in difficoltà, quando tutti sapevamo già come sarebbe andata. Anche perché altri, meno forti di lui, prima di lui, hanno saputo fare lo stesso. Da segmenti in cui MJF non ha fatto né detto nulla che non fossero urla nel microfono. Parlando di episodi iper-gonfiati e irrilevanti della sua vita come di un incidente stradale di un decennio fa, della ragazza che lo ha lasciato, insulti alle madri e al pubblico usati come intercalare. Prima vuole sembrare un machiavellico diavolo che violenta il mondo per i suoi scopi, poi fa vedere che è il mondo a tradirlo continuamente e lui ne è vittima.
E poi le figlie di Danielson, il suo ruolo di padre, il suo menefreghismo perché il wrestling conta più della famiglia che MJF non ha mai avuto. E quindi? Non hai appena finito di dirmi quanto l’AEW Title sia l’unica cosa che conta per te? Lo scambieresti per una famiglia? Che sei qui a fare allora? Perché lotterai un’ora a Revolution contro uno come Danielson? Posto che a 26 anni, Max, il tempo per trovarti “una moglie bellissima che ti adora e avere dei figli felici e in salute” credo tu ce l’abbia eccome.
Depurare questo racconto da tutte queste sovrastrutture contraddittorie avrebbe permesso al miglior talker “reattivo” che c’è oggi nel wrestling di avere un terreno da cui elevarsi. Già, perché MJF è bravissimo a parlare di sé, ma è ancora più bravo a farlo specchiandosi contro qualcun altro che gli setti il livello di partenza. Come avvenuto per esempio con CM Punk. Riprendi ciò che entrambi i performer sono stati e sono e su quello costruisci. Continui il tuo racconto, partendo dalla realtà in ring. Senza sminuire nessuno in un ruolo forzato, lasciando a ognuno la liceità della propria dimensione, della propria identità. Senza finzioni, senza dover gonfiare i promo con episodi irrilevanti o con insulti senza né capo né coda, senza essere cheap. In fondo, anche nella vita e non solo nel wrestling, cosa c’è di più facile che dire la verità? Ecco, quale poteva essere, la vera Revolution.