AEW Planet #65 – Ora vedo la realtà

Pochi giorni dopo la sua nascita, la piccola principessa Rapunzel, dotata di poteri magici in grado di ringiovanire le persone, venne rapita e condotta in una torre isolata dal resto del regno. Madre Gothel la tenne segregata finché un ladro di nome Flynn Rider, capitato lì per caso, la tirò fuori, facendole vedere il mondo e facendole scoprire emozioni, sentimenti, divertimenti e avventure. E nella canzone principale del film, Rapunzel dice “Ora vedo la realtà e la nebbia si è dissolta”.


Ebbene, noi fan del wrestling abbiamo vissuto in una simile prigionia. Dorata, per certi versi. Perché di fatto ci siamo plafonati su un prodotto basato sulla finzione, ma in grado di regalarci qualsiasi cosa. In cui, quindi, proprio come Rapunzel, credevamo in cose che non esistevano, in personaggi parodistici, stereotipati, iper-caratterizzati o caricaturati. Seguendo uno schema, una regola semplice, standard, inequivocabile (con annessi corollari): c’è un buono e c’è un cattivo. Abituandoci a questo, ignoravamo quanta realtà potesse esserci fuori da quella torre nella foresta. Ignoravamo la potenza e la profondità di una narrazione che nasce dal reale.

E ora improvvisamente sul palcoscenico torna la realtà. Sul quadrato salgono le persone, prima dei personaggi. In AEW, questa direzione ha avuto vita più lunga e fruttuosa, per esempio con Hangman Page. La cui redenzione verso il titolo nacque da motivazioni reali, intime e personali. Che si contrapposero invece a un personaggio sostanzialmente e banalmente standard come quello di Kenny Omega. L’heel tracotante e insopportabile, con la sua cricca di scagnozzi. Un canone classico del mondo narrativo del wrestling, dicevamo, contro il racconto di un’anima.

Ma nondimeno si è visto con Punk, con Eddie Kingston e soprattutto con il Jon Moxley seconda maniera. L’attuale campione ha creato una connessione intima e unica con lo spettatore, basata sui reali vissuti e sentimenti. I suoi problemi personali, la pausa forzata, la disintossicazione. Quel senso di spaesamento quando si affronta un capitolo incerto e inaspettato della propria vita. Che nasce da una debolezza, che si traduce in forza al superamento. Una forza incontrollabile, quella di Moxley. Una forza che comunica, perché sincera, perché tangibile, perché reale. In ogni parola, in ogni incontro, in ogni espressione facciale, in ogni singola mossa.

E ora gli si para davanti quella figura che, per tempra polarizzante, sembra essere ideale come nemesi. MJF, autore nella notte di Dynamite di un’ennesima prova di meraviglia al microfono. Una figura spiazzante, enigmatica, non catalogabile secondo i dettami scritti nel sacro testo del character design in ambito wrestling. Lo dicemmo già a suo tempo, quando MJF portò in ring il suo passato da vittima di bullismo: MJF può fare il babyface. Anzi, può essere il miglior babyface su piazza. Ma allo stesso tempo, diranno le correnti opposte, è un heel naturale, non c’è nessuno migliore di lui nel fare l’heel, nell’essere un heel. E parlo di vivere il personaggio, prima che mi si venga a dire che c’è qualcun altro che viaggia con due orpelli alla clavicola con la W tuttatempestatadidiamantierubini.

Lasciamo andare questi personaggi, diamo loro la libertà. Lasciamoli parlare, sfogare, esprimersi. Godiamoci il loro racconto, crediamogli. In qualsiasi forma esso si svolga. Ed è il motivo per cui, come fatto con Page settimana scorsa, Tony Khan deve fare ciò che probabilmente e ironicamente gli riesce meglio. Non scrivere. MJF non va scritto. MJF va liberato. Così come in WWE va liberato Bray Wyatt. E se quest’ultimo sta scrivendo, mi auguro, una storia di rivincita personale, affrontando i propri demoni che l’hanno perseguitato negli ultimi anni, il secondo sta per coronare il suo cammino.

Non tornare indietro, Tony. Non fare del promo di stanotte l’ennesimo voltafaccia manieristico di un personaggio machiavellico. Il pubblico ha adorato MJF, il pubblico lo segue, lo vuole. Se poteva avere senso la prima volta, in cui forse ti sei tu stesso meravigliato della potenza “face” espressa da MJF, ora non puoi più tirarti indietro.

Non renderlo un Daniel Garcia, imprigionato nella morsa dello sports entertaining proprio quando stava iniziando a dirci qualcosa. Non farne un Jungle Boy, anch’egli incatenato come Prometeo con un falco dal becco adunco a lacerargli la linfa vitale che aveva saputo mostrarci. Con loro, invece della realtà della situazione degli interpreti (Garcia, il giovane da lanciare che trova in Danielson un modello e un’ispirazione; Jungle Boy, un wrestler in attesa di consacrazione), si è scelto di perdere tempo. Di affidarsi a stupidi plot twist pieni di nulla, capaci solo di raccontarci un qualcosa di palesemente finto e scadente.

Abbi il coraggio di osare, con MJF. Dai consequenzialità a quest’anno che nasce con Punk che vince di rapina con l’anello. Con Wardlow che lo tradisce. Con una pipebomb clamorosa in cui si scaglia contro i giochi di potere nel backstage. Contro le ingiustizie perpetrate da un management troppo occupato a servire gli ex WWE. E ultimo ma non ultimo, con un promo in cui Max parla del wrestling come della sua vita. Dei suoi sogni infranti di 19enne con grandi speranze. Della delusione derivante dal rifiuto. Degli sforzi fatti per farsi un nome, per emergere, per poi vedere tutto cancellato da un’email in cui chi decide, Regal in questo caso, gli comunica che ha ancora tanta strada da fare.

E in cui conclude evitando di colpire Regal alle spalle, per poi gridare a Moxley di non volere una vittoria contro un avversario indebolito o al 50%. Lui vuole tutto. E quindi affronterà Jon Moxley a Full Gear, affinché non ci siano scuse, per guadagnarsi il trionfo. Ecco, rileggendo tutti questi elementi come singoli, scindendoli cioè dal contesto MJF, non pensereste a un top face pronto per completare la sua redemption dopo un lungo e sofferto cammino?

MJF è riuscito in quest’impresa. Di regalarci una fusione di face e heel basata sulla realtà e sulla verità della sua natura di wrestler e di sports entertainer. Se Moxley e Reigns possono essere considerati le colonne portanti, le spine dorsali delle rispettive compagnie, MJF e Wyatt ne rappresentano l’anima, l’essenza più pura. Quindi, tornando a noi, Tony. Basta giochetti, basta tradimenti, scritture e sovrascritture. Diamo a Maxwell quel che è di Maxwell, perché se lo merita. Perché se lo è conquistato, al 110%. Perché ci ha fatto credere a qualsiasi cosa. In qualsiasi modo. Di qualsiasi natura o identità.

Perché nella palude stagnante dell’incapacità creativa e della vacuità narrativa, la sua luce, perlopiù demoniaca, ma con un retrogusto di angelico, ci ha fatto vedere la sua realtà. Senza edulcorarla, senza mistificarla. Sbattendocela costantemente in faccia, per quella che è.

Andrea Samele
Andrea Samele
Laureato in filosofia, amante della creatività, della scrittura e del suono musicale di una chop. Appassionato di wrestling di lunga data per la capacità di creare personaggi e storyline in grado di coinvolgere gli spettatori. Per Tuttowrestling.com curo l'AEW Planet.
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