Gorilla Position #23 – Triple H sulla Rupe dei Re

Gorilla Position

“Perciò è con la morte nel cuore che quest’oggi salgo al trono. Ma dalle ceneri di questa tragedia, non disperate! Perché sorgerà l’alba, di una nuova era, nella quale leoni e iene lavoreranno insieme per costruire un grande e glorioso futuro!”.


Così terminava il discorso di Scar sulla Rupe dei Re una volta fatto fuori il povero Mufasa. Ecco, allo zio cattivo di Simba non andò proprio benissimo. Sia perché la terra un tempo rigogliosa divenne arida, sia perché alla fine i nodi vennero al pettine. E se ti comporti da brutto e cattivo, Babbo Natale ti porta il carbone e paghi tutte le tue malefatte. Prendendo schiaffi dal nipotino e anche dalle iene, che turnano su di te proprio nel momento culminante.

In continuità con questo scenario, il rientrante Triple H è il buon Simba, mentre il suocero Vince McMahon veste i panni del defenestrato fratricida Scar. Con cui eravamo in balia di una stagnazione creativa disarmante, in cui la risata di una iena era più importante del nutrimento necessario ai propri leoni. Cui non era rimasta altra scelta che scappare, lontano, là dove la natura era più florida. Che si parli di scarti o di nomi top, e, soprattutto, che piaccia o meno, dai quartieri alti di Stamford abbiamo visto una diaspora notevole.

Dai nomi della prima ora, Jericho e Moxley, agli ultimi della lista, Cole, Danielson e Castagnoli. Senza dimenticare in between anche i vari Lee, Strickland, Ruby Soho, Toni Storm, Malakai Black e compagnia bella. Su cui è ovviamente già partito il countdown su chi tornerà per primo a casa base. Già, perché anche in WWE pare sia l’alba di una nuova era. In cui chi merita tornerà ad emergere, in cui si cercherà di dare un tessuto creativo migliore. In cui si tornerà a usare la parola wrestling e con essa a dare minuti a chi deve sporcarsi le mani sul ring.

FINALMENTE SI COMBATTE

Ed è proprio su quest’ultimo punto che vorrei soffermarmi un attimino. Fonte Cagematch, ecco i minutaggi lottati degli ultimi eventi WWE a confronto, dagli ultimi afflati di McMahon all’avvento del genero:

Siamo nel regno di coloro che scoprono l’acqua calda, forse. Però che la tendenza stia nettamente cambiando è scritto nei numeri. Nell’ultima settimana, sia RAW che Smackdown hanno toccato il loro record in termini di lottato. E il voto alla puntata, per quanto futile in quanto frutto delle preferenze soggettive degli utenti, è una cartina di tornasole in relazione al fatto che alla gente il wrestling piace quando si ha il tempo materiale per vedere qualcosa.

Un match ha bisogno di tempo per declinarsi, squash a parte. L’epica di un racconto lottato non può ridursi alle solite tre o quattro mosse, fatte dai soliti tre o quattro “eletti”. La paludosità narrativa della WWE ha reso a tratti inguardabili gli show, proprio perché sai già che non ci sarà niente di niente da vedere. Storie demenziali, incontri fugaci che sembrano più pause tra un segmento parlato e un altro. In cui, peraltro, non dici nulla se non le solite corbellerie ripetute a menadito. Tanto che, incredibile dictu, ci si esalta perché Reigns dice a Theory che il paparino non c’è più. Wow. Viene giù lo stadio. Ma pensa.

Anni di nulla ci hanno abituato a questo livello di prodotto e ora tutto ciò che viene è grasso che cola. E questa è un’eredità che Triple H non può non sfruttare. Non a caso, il 24/7 è scomparso, Omos è a Main Event, Edge fa un promo con dei contenuti, Styles vince un match, lo US Title torna improvvisamente in auge. Con una trama ben precisa, e Ciampa che si conquista l’opportunità di sfidare Lashley, che a sua volta parla del passato (Theory) e del futuro. In una parola, linearità. Le ultime puntate non ci hanno mostrato la luna, ma sono state godibilissime perché coerenti, lineari, consequenziali. Organiche, in base a ciò che si voleva raccontare. Seppur basico.

Sheamus e Drew hanno avuto 25 minuti di tempo per mostrarci quanto fantastica sia la loro interazione sul ring. E non era una primizia, nel senso che di loro match ne abbiamo già visti in quantità. Eppure quando c’è il tempo materiale per dire cose, sia verbalmente che poi sul quadrato, non esistono brutte copie (vedasi FTR vs Briscoes). Che è poi il tema di SummerSlam, un eccellente lavoro di cosmetica in ring su una card che faceva acqua da tutte le parti.

SUMMERSLAM: IL REGNO DEL GIA’ VISTO

SummerSlam aveva poco tempo per poter pensare a un’inversione di tendenza repentina in relazione a ciò che ci si aspettava. Match visti e stravisti, senza aggiunte di trama che potessero giustificarli nuovamente. Preparazione banale, affrettata, data per scontato. Ok, lui odia quell’altro, quindi combattono. Lei è campionessa, quindi l’altra vuole il titolo. Nessun approfondimento. Anche il main event stesso non ha avuto chissà quale preparazione. Non sappiamo che fare, prendiamo Lesnar, prendiamo Reigns, facciamoli combattere, ancora. Ancora. Perché il match più grande di sempre non è la fine. No.

Ne sono usciti con dignità. C’è chi ha gridato al miracolo, chi ha elargito valutazioni esorbitanti. Sgombriamo il campo: SummerSlam non è stato un PPV for the ages. Un evento più che onesto, molto valido, ma niente per cui strapparci l’epidermide di dosso. Perché la povertà di contenuti e di costruzione ha comunque fatto sentire il suo peso. Perché la parte centrale della card a stento ha raggiunto la sufficienza. Senza menzionare Liv Morgan vs Ronda Rousey perché vabeh. Però due grandi punti esclamativi: il momento migliore del PPV dal mio punto di vista è stato l’opener.

Non un match pulitissimo, dal punto di vista del lottato. Ma sicuramente coerente con la storia che volevano raccontare e in linea con quanto poi è seguito. Il ritorno di Bayley e della sua stable che comprende Dakota Kai e la fu Io Shirai, gestito alla grande. Il personaggio di Becky Lynch aveva decisamente bisogno di una rinfrescata. L’infortunio la terrà ai box, pare, per diversi mesi, ma al di là del turn face, serviva una storia da raccontare. La serie di sconfitte, il titolo che mancava, la ricerca di rivincita: tutti temi che non potevano conciliarsi con il personaggio a tratti parodistico e pomposo che interpretava prima. Molto meglio una ricostruzione da face o da tweener, meglio tornare The Man, meglio avere qualcosa da dire.

Passando all’altro 8 in pagella, il main event. In linea perfetta con il resto dell’evento, quindi un’operazione di maquillage di incredibile efficacia. Cosa ci hanno detto Reigns e Lesnar nel loro Last Man Standing? Nulla. Assolutamente nulla. Perché non c’era davvero più nulla da dire. O forse non c’è mai stato nulla che potessero dirci. E quindi cos’abbiamo visto? Due campioni darsele di santa ragione, in tutti i modi. Alcuni efficaci, altri meno. Ma sono riusciti a coinvolgere lo spettatore, alla grandissima. Vuoi per il solito gioco del “mi aspetto uno schifo e wow!”, vuoi perché trattori, ring che si spostano etc non è cosa che vediamo tutti i giorni.

Ma anche e soprattutto, per tornare a quanto detto sopra, perché hanno avuto TEMPO. 22 minuti e 55 secondi, quasi il doppio del loro match (il più grande di sempre, ricordiamolo) a WrestleMania. Perfettamente fit con la stipulazione proposta, in cui davvero l’ultimo ad arrendersi l’avrebbe potuta spuntare. Non è sembrato affrettato, si è vista una logica di fondo tradotta in tutta quella illogicità di svolgimento. Un’altra necessaria discontinuità in rapporto al nulla cosmico, alla vuota banalità che questi due ci avevano regalato finora.

La strada imboccata è quella giusta, lo dimostrano i numeri, le reviews, i ratings, la sensazione di attesa che c’è ora per le prossime puntate. I rumors stessi, i ritorni (chi si aspettava Dakota?). Non c’è dicotomia tra segmenti parlati e lottato, l’uno è il presupposto dell’altro che ne è irrinunciabile continuazione. Perché in fondo, quello che conta è sempre che ci sia qualcosa di sincero da raccontare. Che ci siano titoli da conquistare, ma anche da meritare. Vecchi leoni che accompagnano le nuove generazioni verso il loro futuro. Alleanze e tradimenti. Lacrime, sangue (forse) e finisher, per arrivare a un ruggito finale di soddisfazione, conquista e rivincita contro il destino.

Perché il passato, in certa misura, continua e continuerà per un po’ a fare male. Ma, come dice il saggio Rafiki, dal passato puoi scappare. Oppure, imparare qualcosa.

Scritto da Andrea Samele
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