Gorilla Position #10 – Il fattore pubblico in WWE e AEW

Il COVID-19 è stato il monster heel dell’ultimo anno e mezzo. Ci ha privato di tante gioie, costringendoci a rimanere bloccati nelle nostre quattro mura domestiche e ad adeguarci a un nuovo stile di vita. E nel wrestling ha tolto il fattore pubblico dall’equazione del successo, imponendo al prodotto e ai performer un cambio di rotta cui non tutti hanno saputo adattarsi.
In fondo, anche nelle nostre giornate, siamo diventati tutti dei piccoli wrestler. Abbiamo dovuto raccontare storie a chi ci guardava, abbiamo vestito maschere divenute fondamentali come per i luchadores. E guai a togliercele!
Abbiamo saputo creare hype intorno a cose che magari prima reputavamo normali. E soprattutto, abbiamo imparato, chi più chi meno, a capire cosa realmente ci piace, cosa ci manca, cosa avremmo voluto fare o vedere o vivere.
Siamo diventati, insomma, spettatori di noi stessi, lamentandoci del prodotto che la vita ci offriva e godendo, invece, di ciò che di giorno in giorno ci appagava. E forse ora comprendiamo meglio quanto sia difficile scrivere ogni puntata di uno show televisivo, perché sai sempre che devi dare qualcosa a qualcuno. E al tempo stesso preservare i meccanismi di costruzione del tuo stesso programma. Trovare il giusto equilibrio tra qualità del prodotto (teorica, per lo meno) e prostituzione intellettuale non è assolutamente semplice e tra WWE e AEW abbiamo due modi opposti di approcciarsi alla questione.
WWE – INERZIA E PIGRIZIA IN NOME DEL PRODOTTO
A Stamford, sembra proprio che si sia persa quella connessione con il pubblico. A chi gestisce gli show WWE, ottuagenari o meno che siano, non interessa minimamente cosa i fan desiderano. Entertainment, la grande E dell’acronimo più importante nel panorama wrestling: noi vogliamo intrattenere e decidiamo noi come farlo. Voi statece regà, come si dice a Roma. Quindi, performer ottimi e anche over con il pubblico come Cesaro, Nakamura e Owens languono nel midcard, Daniel Bryan e Becky Lynch hanno creato da soli la loro fortuna, costringendo quasi il booking team a pusharli per i rispettivi titoli.
A noi WWE piacciono Charlotte Flair, Roman Reigns, Baron Corbin, Bobby Lashley, Nia Jax. Quindi tutte le puntate ruotano su ciò che vogliamo noi, con storyline per lo più discutibili e poco apprezzate dai fan. Che di certo non sono contenti di vedere Goldberg andare per la cintura di RAW, che sicuramente regalano boati a John Cena, così come fischi a Brock Lesnar. Ma il pubblico cambia, si evolve, cresce e matura. E se i part timer mezzosecolari (o più) possono mantenere intatto l’effetto nostalgia nella generazione 90s, che è nata nel wrestling con quei nomi, di contro uccidono il futuro.
Perché i main eventer di oggi dovrebbero essere altri, che invece si dilettano con delle spade (McIntyre, l’MVP della COVID-era, non nel senso di Montel Vontavious Porter…), a fare i cretini con dei monopattini (Riddle). Oppure vengono ridicolizzati con sconfitte con prossimi pensionati (Kross vs Hardy) o sparizioni periodiche senza spiegazioni (Keith Lee, ma anche lo stesso Bray Wyatt), o ancora carne da macello per bizzarre firme di contratto (Balor…). Le puntate si dipanano attorno a storie scialbe, povere, senza nessun tessuto narrativo o emotivo, prima ancora che interpretativo.
L’angle sul ring tra Goldberg e Lashley a RAW è stato a dir poco agghiacciante: il pubblico che inneggiava a Bray Wyatt, Goldberg che cercava di metterci pathos con la convinzione con cui un cuoco potrebbe mettere la panna nella carbonara, Lashley che sa usare solo un’espressione del volto. Ora, vi domando, che faccia fareste voi nel trovarvi Lana (o chiunque vi piaccia da morire) che vuole dedicarvi delle tenere effusioni amorose? La stessa che avreste nel sentirvi un anziano signore muscoloso che vi sputa in faccia (letteralmente) il suo You’re Next? Io non credo. Lo spero per voi, per lo meno.
Mancano tutti gli ingredienti per cui nel fan si generi il meccanismo di identificazione o di comprensione del wrestler. Si fanno le stesse cose ogni settimana, si va avanti per inerzia, a livello creativo e a livello di pubblico. Perché anche lo spettatore ormai tifa per inerzia. C’è il buono? Ah, allora devo applaudire, spè, Let’s go Cena! Ehi, no. Fermi tutti, ma Cena è anche cattivo? Sento dei cori. Cena sucks! Cena sucks! Ma no, quell’altro è Reigns, è lui il cattivo, BUUUUUUUUUUU. Ma perché combattono? Boh. Cena non è un attore?
Da questo punto di vista, il fatto che la WWE continui ad imboccare i fan ha perfettamente senso. Comandano loro, sono loro che decidono cosa noi dobbiamo guardare e chi noi dobbiamo sostenere. E continueranno a riproporcelo finché non capiremo con rassegnazione che o accettiamo ciò che vediamo, o banalmente (e meritatamente) cambiamo canale.
Come il minestrone di verdure che compariva puntualmente in tavola al grido di “O mangi questo, o salti la cena”. Ed è triste dover skippare qualcosa che ci appassiona, lo so. Ma i ratings in crollo dicono che sempre più persone decidono di saltare la cena. Pubblicità progresso: bambini, mangiate le verdure, mi raccomando. Ma RAW potete saltarlo, valà.
AEW – L’ECCESSO “CACIARONE” DEL VOLER ACCONTENTARE TUTTI
In AEW, noto che spesso si commette l’errore opposto. Montagne di caramelle gommose. Che io sono solito digrignare in quantità diciamo importanti. E poi viene il mal di pancia. E ci tocca vedere gli Young Bucks che giocano a pallacanestro durante un match che, in teoria, decide il futuro dei titoli di coppia e del titolo principale della compagnia. Ci tocca vedere incontri lunghissimi tra fan favorite e powerhouses. Che dovrebbero essere squash, ma bisogna accontentare tutti, tifosi e wrestler. Quindi via di 20 minuti in 20 minuti, anche tra gente che nessuno ha mai visto né sentito nominare.
Apprezzo il tentativo che c’è a Jacksonville di dare un senso a ogni puntata. Di creare un prodotto che piaccia ai fan, in tutte le sue componenti. Anche a costo di essere un po’ “rozzi” in talune dinamiche. Però ci sono effetti collaterali anche in questo modus operandi. Il pubblico vuole Punk? Gli diamo Punk. L’hardcore wrestling piace tantissimo? Diamogli ogni settimana lacrime, sangue e puntine da disegno. Che importa se poi il senso in chiave storyline viene sacrificato e il valore stesso di quel tipo di lottato “banalizzato”, ciò che conta è che lo spettatore sia contento.
E questa è una strategia che copre il breve periodo, l’evento singolo a cui stiamo assistendo, attrae chi è curioso di vedere Nick Gage con il tagliapizza in mano che affetta Chris Jericho proprio prima di una pubblicità che parte con, indovina indovinello, la pizza. Si ride, nel vedere Orange Cassidy e Sting che si tirano i fake kick alla sloth style, ma se del match che c’è stato ci si ricorda più (solo) di questo e nemmeno di chi combatteva (Wheeler Yuta vs Darby Allin, credo!), allora forse c’è qualcosa che non va.
Il fan service è sempre un’operazione facile ma al tempo stesso pericolosa. Lo è nei manga, negli anime, nei videogame, nei film. Puoi omaggiare Eddie Guerrero n volte in ogni puntata, puoi far arrivare sorprese su sorprese a ogni pay per view, puoi richiamare tutte le vecchie glorie per strizzare l’occhio anche ai fan di una volta, però sono tutte strategie che se non vengono inserite in un contesto diventano one and done. E il contesto lo dà la narrativa che tu proponi di settimana in settimana. Paradossalmente, l’elemento di maggior interesse presso il pubblico, Hangman Page, è anche quello che viene costantemente rimandato per motivi di dubbio gusto.
Sacrificare costruzioni a lungo termine in nome della facilità di un This is Awesome! o di un Holy Shit! presi oggi per un qualcosa di randomico è un autogol che a lungo andare ti farà pagare il conto. Bisogna continuare a lavorare sui personaggi, cercando quell’equilibrio con le aspettative dei fan di cui sopra. Bisogna far feudare un giovine come Jungle Boy con una leggenda come Christian Cage, che sa cos’è il midcarding e sa cos’è il main eventing. E ora è in title shot mentre tu, Jack Perry, sei tornato a fare match insignificanti in cui il tuo compagno di coppia ottiene più visibilità di te.
Bisogna spremere Orange Cassidy perché la vitamina C fa bene, avere il coraggio di dargli una cintura, di far esplodere un personaggio che i fan amano e che tu hai lavorato con fatica e dedizione. Invece di fargli fare la macchietta a bordo ring. Serve innestare gente con un’idea ben precisa, come fatto in maniera davvero splendida con Malakai Black, e non tanto per fare (Andrade?). Serve sfruttare ciò che hai per elevarlo, non per oscurarlo con qualcosa di più luccicante ma poco integrato nel contesto: Dark Order, Bray Wyatt, Brodie Lee. Una storia già scritta, che va bene per tutti, che va bene per tutto.
Così il pubblico può continuare a capire, a tifare, a immedesimarsi e a vivere le storyline sulla propria pelle. Che, peraltro, è il suo ruolo nell’equazione. Perché, signori miei, quanto è bello sentire il tifo spontaneo e sincero nelle arene. Quanto ci è mancato il pop per le superstar più in vista. Quanta atmosfera crea il conto del pin in ogni near fall. Quanto. Un fattore preminente, quello del pubblico, che finalmente ora abbiamo ritrovato.