AEW Planet #55 – Promossi e bocciati di Double or Nothing

E anche Double or Nothing ce lo siamo giocati. Non benissimo, a parere di chi vi scrive. Questo perché la marcia di avvicinamento all’evento ha registrato una diffusa superficialità, una quasi pretesa che i match si scrivessero da soli e dovessero interessare e brillare di luce propria. Ma non funziona così. Mi devi contestualizzare storia, protagonisti e finalità, altrimenti si finisce nel consueto “il lottato è buono”.


Certo, il lottato è stato tendenzialmente molto valido, come sempre, ma questa volta non è stato sorretto da un impianto narrativo sufficientemente di livello. E questo si è sentito anche nella durata della card: 4 ore e passa di PPV senza una trama sono state pesanti da gestire. Parliamo di un evento insufficiente? No, certamente no. Però parecchi nodi sono venuti al pettine, ci sono state delle difficoltà.

A partire dalla marcia di avvicinamento, condita dal caso MJF, che ha spostato nettamente l’attenzione dalla card a un elemento esterno. Per continuare con due tornei né carne né pesce in cui sin dall’inizio mancava l’obiettivo. E ancora a incontri improvvisati o in modalità “tonnara”, giusto per dare il cap di partecipazione praticamente a chiunque.

Un PPV non può essere solo un’advertising del proprio roster. A maggior ragione se ne hai solo 4 all’anno. Il PPV dev’essere la conquista, la conclusione di un cammino. Il culmine di una narrazione che collima con l’inizio di un’altra. Invece, con Double or Nothing si è continuata una tendenza all’eccesso che se è sinonimo di qualità passa inosservata, ma quando è fine a se stessa diventa pesante. Ma passiamo all’analisi dei match per capire cos’è andato bene e cosa no.

COSA HA FUNZIONATO

I due match che più mi sono piaciuti sono stati House of Black vs Death Triangle e, sorprendentemente, l’Anarchy War. Sul primo c’erano talmente poche aspettative che era difficile rimanere delusi. E la performance dei 6 fenomeni sul ring ha avuto la ciliegina sulla torta del finale, con – finalmente – Julia Hart protagonista. Una storia molto lineare, se vogliamo, che tutti gli spettatori aspettavano già da tempo e in cui fondamentalmente hai capitalizzato qualcosa che probabilmente stavi già tirando per le lunghe.

L’incontro tra la JAS e Kingston & amici vari ed eventuali ha beneficiato enormemente del livello tecnico proposto. Gli incontri in salsa hardcore quando sono affidati a gente che ci sa fare e sorreggono una rivalità che, pur con le mille lacune, non manca di tensione diventano logicamente consequenziali. E non forzati come i millemila Texas Deathmatch che abbiamo visto, in cui la stipulazione era cosmetica per creare un finto hype a sfide che non ne avevano. Vince il team Jericho facendo svenire Bryan Danielson e con il senno di poi non è una scelta sbagliata. Un team heel che nasce come serpe in seno al professional wrestling ha bisogno di affermazioni. Non di una sconfitta al primo scoglio.

Come ci si è arrivati è rivedibile, nel senso che Kingston batte Jericho in singolo, Jericho aggiunge i 2.0, Kingston aggiunge Danielson e Moxley… e perde? D’accordo, il concetto di squadra ha giocato un ruolo determinante e l’incapacità di Kingston di essere un team player è ciò che è costato la sconfitta. Ma lo sbilanciamento delle forze in gioco era abbastanza importante e, secondo me, andava controbilanciato narrativamente in maniera più efficace.

Pollice alto anche per Serena Deeb e Thunder Rosa, che hanno dato vita a un grandissimo incontro al femminile. Uno dei migliori sicuramente visti finora. Che entrambe siano performer di assoluto livello non ci sono dubbi. Purtroppo, la gestione del titolo sin qui è stata al limite del terrificante: Thunder Rosa è stata de facto abbandonata a se stessa, con poco tempo televisivo da sfruttare e sempre in modo interrotto. Microfono alla mano, due o tre frasi urlando e poi interruzione.

E non abbiamo a che fare con Britt Baker, che bene o male da sola è riuscita a barcamenarsi pur senza una scrittura di feud decente da quando è diventata campionessa. Thunder Rosa, un po’ come Hangman Page, aveva bisogno di scrittura per legittimarsi dopo una lunga rincorsa. E in entrambi i casi, per quanto mi riguarda, la AEW ha fallito. Cosa che è per certi versi testimoniata dall’esito del main event.

COSA HA FUNZIONATO A META’

Dire che il regno di Hangman Page non sia stato brutto è come cercare di dire a una persona che non ti piace che è simpatica. O un tipo. Non sarà stato brutto, così come non è stato per niente brutto (anzi) il match di Double or Nothing. Ma per come c’era arrivato, al titolo, un po’ di disappunto non può che esserci. Cosa ci ricorderemo del regno di Page come campione? Tendenzialmente nulla. Ha traghettato la cintura per mesi senza mai sembrarne il legittimo proprietario. Non ha mai dominato lo show, non è mai stato lui il centro di Dynamite. MJF e Punk, Danielson e Moxley, c’è sempre stato qualcuno ad oscurare il campione che anzi, il più delle volte appariva non organico.

Non certo per colpe sue, si intende. Dargli avversari estratti a sorte con i numeri della tombola, come faceva il mio professore di latino per interrogare, non è stata la migliore delle scelte di booking. Eccezion fatta per Danielson, Page è rimasto invischiato tra il nulla e il niente, in un refrain del fatto che in AEW pare che i campioni esistano solo in funzione degli sfidanti di sorta (leggasi Jurassic Express). E stavolta, che lo sfidante aveva un nome e un cognome importante, Hangman ha capitolato.

Il match è stato un concentrato di ciò che entrambi sanno fare benissimo, ovvero raccontare, in ring, una storia. Non pulitissimo, ma circondato da quell’atmosfera di epicità purtroppo non sorretta da una storyline che di fatto ha vissuto solo di un paio di settimane di promo sopra le righe. Ci si domanda, sul web, giusta o no la vittoria di CM Punk? Valgono entrambe le risposte, per quanto mi riguarda. Certo è che vista la piega stagnante che Dynamite stava prendendo, questo cambio di titolo sicuramente è una ventata necessaria di freschezza. E il mio sogno narrativo rimane ora la chiusura del cerchio, con MJF che entro fine anno si vendica di Punk e diventa il primo AEW pillar campione mondiale. Sogno che sembrava essere la naturale prosecuzione degli eventi e che ora è messo in pericolo da questa faida off screen tra Friedman e Tony Khan.

MJF scompare, MJF è su un aereo, MJF ha lasciato Las Vegas. Ne abbiamo lette di ogni e alla fine MJF è salito sul ring nell’opener per dare a Wardlow ciò che era di Wardlow. Un’apertura di show che per me ha funzionato alla grande. Viste le premesse ne sono usciti in maniera ampiamente sufficiente, regalando al pubblico un DoN moment, se vogliamo dir così. MJF è un talento epocale, capisce il business probabilmente come nessuno in questo momento. Al punto da sembrare sempre in work, sempre in character, da creare interesse anche quando non c’è niente di interessante. Perderlo sarebbe un problema gigantesco per la AEW, fermo restando che nessuno è insostituibile.

E alla fine si è anche dimostrato un professionista di primo livello, facendo il suo, in un match che aveva il solo scopo di elevare Wardlow che ora è uno dei top face (se non il top face) della compagnia. Urge un giro titolato, magari secondario, per dare continuità a un character in evoluzione spaventosa e che esce da uno di quei feud che ti lanciano nell’iperspazio. Rispettando peraltro la narrazione, in cui, a differenza di un Chris Jericho o di un Cody, che dovevano conquistarsi MJF, i piani erano ribaltati.

Era MJF che voleva mettere qualsiasi cosa tra sé e Wardlow. Che è sempre stato caratterizzato come superiore. Anche nel modo di prendere le 10 frustate. Le risate, la mimica, quella perenne sensazione di potenza anche prima che avvenisse il loro split. Double or Nothing ha messo tutti i fattori in verticale, ha tracciato una riga e ha dato il giusto risultato alla loro moltiplicazione.

Nella categoria degli half and half ci metto pure Allin vs O’Reilly, bel match ma senza nulla di costruito, per cui di fatto abbiamo solo visto un saggio di capacità dei due performer. Allin continua a perdere, una tendenza che acuisce il problema di valorizzazione di quelli che sono i cardini, gli AEW Originals. MJF squashato, Allin che perde, Guevara che perde e Jungle Boy che mantiene, in un match anche qui molto valido, ma che attende il turn di Christian Cage per tornare ad avere qualcosa di interessante da dire e fare. Full Gear 2021 ci aveva dato un PPV quasi solamente basato sulle forze del roster. Sulla valorizzazione del proprio materiale umano. E ora…

COSA NON HA FUNZIONATO

E ora abbiamo un torneo Owen Hart al maschile che è sembrato lo scapoli ammogliati infrasettimanale. Vecchie glorie, ex WWE come se non ci fosse un domani, una finale inedita che poteva – per storia e capacità – spaccare il mondo e raccontare tanto e a cui invece a stento dai un 6.5. Così come si fatica a dare la sufficienza ai poveri Hardys, ben oltre il viale del tramonto soprattutto per Jeff, alle prese con infortuni, ma sempre sembrato appesantito, del tutto non in bolla. Gli Young Bucks hanno provato a caricarsi l’intero match sulle spalle, ma il risultato è stato un susseguirsi di spot random, con zero selling e un finale del tutto forzato con i vincitori palesemente sbagliati. Quando il wrestling ti sbatte in faccia il fatto che tutto sia predeterminato la sensazione che rimane è davvero brutta.

Le note stonate, purtroppo, sono state più del solito. Di vera e propria insufficienza, probabilmente, ce n’è solo una ed è Cargill vs Jay. Match brutto e mal eseguito, sicuramente più interessante il post match, con il debutto di Athena, la fu Ember Moon. Da cui la domanda: è tempo che Jade passi il titolo? La mia risposta è No, assolutamente no. Fa errori anche grossolani? Sì. Nessun dubbio in proposito. Però è una figura dominante della divisione femminile? Parimenti sì. Anzi, forse è la figura più importante che a oggi per costruzione la AEW possa vantare in ambito Women. E non può essere una nuova arrivata, così dal nulla, a interrompere l’egemonia. Come già sviscerato in un numero precedente del Planet, sulla Cargill la AEW sta investendo tanto. Una scommessa importante che va vinta. E per vincerla bisogna continuare a insistere finché i dividendi non inizieranno ad arrivare.

Di contro, però, se Athena non si ritaglia subito un ruolo da protagonista, si rischia il deja vù. Che senso ha avuto far perdere per l’ennesima volta Ruby Soho? Non sono in cima alla lista dei suoi ammiratori, ma solitamente nella valutazione di un match guardo anche come ne esce chi lo vince e a maggior ragione chi lo perde. Davvero Britt Baker aveva bisogno di un’altra onorificenza? Davvero serviva la pantomima con la coppia che vince il torneo? Non sarebbe stato meglio usare il torneo per promuovere qualche grosso calibro al momento in seconda fila (la Soho, ma anche Toni Storm) o per insistere su nuove gimmick (Statlander)? Invece ci tocca ancora la DMD, che per l’amor del cielo, è sempre un piacere. Ma da entrambi i tornei fondamentalmente chi ha vinto non ha vinto nulla, chi ha perso ha perso tanto.

E a proposito di coppie, concludiamo con l’ultimo match che ha visto concludersi nel peggiore dei modi l’autodistruzione di Sammy Guevara. Era over, era in rampa di lancio, era campione. Ora ha perso tutto, compresa la possibilità di sfidare ulteriormente il campione TNT Scorpio Sky. Però è fidanzato con Tay Conti e i due si vogliono davvero tanto tanto bene. A ognuno il suo. Tant’è.

Un PPV nel suo complesso più che sufficiente, seppur con parecchi difetti. Un’altra estate all’insegna di CM Punk ci aspetta, con la speranza che ora si ricominci a costruire e non a vivere di rendita presumendo che i fan capiranno. Per questo appuntamento con l’AEW Planet è tutto, un saluto da Andrea “The Philosopher” Samele!

Andrea Samele
Andrea Samele
Laureato in filosofia, amante della creatività, della scrittura e del suono musicale di una chop. Appassionato di wrestling di lunga data per la capacità di creare personaggi e storyline in grado di coinvolgere gli spettatori. Per Tuttowrestling.com curo l'AEW Planet.
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