AEW Planet #81 – Il disturbo di un PPV

AEW Planet

Insipido sembrava e insipido si è rivelato. Come analizzato nello scorso AEW Planet, questo Double or Nothing, inserito in mezzo a un vortice di novità, è sembrato quasi essere un disturbo. Collision arriva, poi Forbidden Door, poi All In: London. Tanto da preparare, tutto sommato poco, se non pochissimo tempo per farlo. Con il consueto carico di grandi annunci di Tony Khan, di rumors su chi c’è e chi manca, infortuni, sorprese, CM Punk, Goldberg etc.


Ma in between c’era Double or Nothing e per una compagnia che ha solo 4 PPV “di bandiera” durante l’anno è un delitto non prepararli a dovere. Che poi possa non essere il main focus attuale è lecito sia pensarlo che condividerlo, visti gli scenari di cui sopra. Ma i dati d’acquisto problematici, gli spazi vuoti nell’arena e il silenzio a tratti davvero pesante del pubblico durante il PPV gridano abbastanza vendetta.

Un evento passato via in sordina, senza colpo ferire. Con pochi match validi, uno validissimo, e tanta mediocrità. Una puntata extra large di Dynamite, potremmo dir così. Le pagelle del nostro Marco Ghironi rispecchiano pienamente l’impressione di un PPV che puntava alla sufficienza come dichiarazione di intenti. “Cerco di arraffarmi un 6 per evitare il debito”, come si diceva una volta.

L’ECCELLENZA DEI PILLARS

Ciò non toglie che ci sia stato un match secondo me eccellente, ovvero il 4 Way Match che ha visto i Pillars scontrarsi tra di loro. E la differenza tra un incontro preparato e uno buttato lì tanto per è davvero evidente. La minuzia con cui ogni minimo dettaglio di questo match è stato non solo studiato, ma anche poi realizzato è lodevole. Dalle entrate, agli attire (MJF con le gomitiere che recitano “io sono l’unico Pillar”), dagli omaggi ai rispettivi mentori, Cody compreso, alle sottotrame durante il match. Guevara che subisce il ricatto di MJF ma senza dargliela vinta. Jack Perry che si trova con la cintura in mano, potenzialmente pronto per colpire il campione e vincere di rapina. Allin che deve sconfiggere i demoni della Headlock.

Ci fossero state pari opportunità staremmo parlando di un match praticamente perfetto. Ma nessuno, credo, ha mai pensato nemmeno per un minuto che MJF potesse perdere. Non che questo abbia inficiato lo svoglimento dell’incontro, ma ne ha sgonfiato un po’ il potenziale emotivo. Personalmente, mi sento di fare un enorme applauso al campione per come ha condotto questo feud. Si è trovato nella situazione scomoda e a lui nemmeno consueta di essere il primus inter pares. Tra i 4 Pillar, lui è nettamente quello più avanti. E si è visto e soprattutto sentito, con il promo conclusivo a Dynamite di MJF che ha oscurato tutti quelli altrui, pur avendo meno cose paradossalmente da dire.

Gli altri tre hanno sentito alla lunga la stanchezza, ripetendo a macchinetta le stesse cose sulla loro vita, i sacrifici, quanto amano la AEW etc. MJF invece ha diretto l’orchestra, giocando quasi in sordina con tutti loro e con noialtri a guardare. Mentre Perry, Allin e Guevara reclamavano la scena, il campione ha fatto il padrone di casa. Uscendone vincitore su tutta la linea.

L’altro che fa un gran balzo in avanti è secondo me Sammy Guevara, protagonista degnissimo dell’incontro. L’unico suo problema è che ha la sindrome di Balto, non è cane, non è lupo, sa soltanto quello che non è. Face, heel, protagonista singolo, al servizio di Jericho, poi in coppia con Tay, poi di nuovo con Jericho. L’unica cosa che gli manca è una run come si deve, precisa e senza fronzoli, che dia al suo personaggio quel che merita. E il timing è questo qui. Dopo questo match, lui deve assolutamente continuare a essere lì. Altrimenti rischia di plafonarsi nella dimensione di saltimbanco occasionale, che è assolutamente limitativa rispetto al suo potenziale. Guevara è pronto, basta crederci e lasciargli spazio.

Un pelino dietro c’è Jack Perry, cui invece manca un po’ di pastasciutta, per dirla con Bonucci. Si vede che cresce, i miglioramenti sono innegabili, ma gli manca forse una storia identitaria, che ne caratterizzi il percorso personale. L’unica fase realmente significativa della sua carriera narrativa è quel terribile feud con Christian Cage. Che non era un feud con vista titolo. Il pubblico lo ha adottato e sa quando tifarlo, ma un approfondimento sul turn heel cui stanno strizzando l’occhio negli ultimi tempi potrebbe aiutarlo a uscire dal guscio.

L’ultimo della fila è Darby Allin, l’unico che ancora non si è affrancato dal mentore. E che mentore. Troppi mesi nell’ombra di Sting lo hanno standardizzato. Che è paradossale, detto di un daredevil come lui. Anche il livello dei suoi promo si è appiattito molto su se stesso, è l’unico che non aveva uno sviluppo di crescita da questo match. Se Guevara ha avuto la sottotrama nemiciamici con MJF, se Perry ha avuto l’amletico dilemma del turn heel, Allin ha solo avuto paura di perdere. Ancora una volta, ancora nello stesso modo. Possono ripartire da qui, volendo, ma se per gli altri due parliamo di storia in costruzione, per lui si tratterebbe di ri-costruzione. Partire in difetto per andare a recuperare.

OVERSELLING

Detto che l’iniziale Battle Royal ha superato ogni aspettativa del sottoscritto e che l’Anarchy in the Arena è stato un match appagante, per quanto sicuramente divisivo e inferiore ai precedenti, punterei il dito sul resto della card. Accomunato dal filo conduttore dell’overselling. Quando non c’è niente da dire, inserisco elementi a caso per farti sembrare il tutto strafigo. Stipulazioni random (Jericho vs Cole, ma anche Wardlow vs Cage), spot insensati (la Swanton di Wardlow dalla scala è follia pura per uno di 130 kg), interferenze e overbooking a più riprese.

I primi 4 match della card (tolta la Battle Royal), uno in fila all’altro, tutti caratterizzati da intromissioni varie ed eventuali di dubbia utilità e di scarso impatto. E paradossalmente ne è mancata una, l’unica realmente necessaria. Perché la Baker decide di intervenire in difesa dell’amato Cole, ma quando c’è la Hayter presa a legnate non succede niente? Al netto dei motivi per cui è successo, rimane bizzarro credere che non ci fosse una via migliore per traghettare il titolo. Così com’è paradossale il modo in cui hanno posto fine al regno TBS della Cargill.

Giusto o sbagliato, hai investito 60 match su di lei. Un regno infinito e terribilmente pesante. Ma è un tuo prodotto. Uno di quelli più riconoscibili, peraltro. Nel male, prevalentemente, ma anche nel bene, perché una streak è sempre una streak e ti chiedi sempre quando finirà. All’inizio con desiderio, poi con insofferenza, infine con l’intolleranza. Ma sono tre stati emotivi che stai maneggiando nello spettatore. Statlander torna, fa il sorpresone, quell’altra si trova in un impromptu match del tutto privo di senso e perde in nemmeno un minuto. No way.

La ricerca della sorpresa per compensare una mancata costruzione può riuscir bene se c’è del materiale effettivo. Altrimenti non fa che denudare tutte le tue debolezze. Da Sabu a Statlander, dalle Outcasts a Takeshita (patatone, la faccia da cattivo peggiore di sempre), dal volo di Wardlow a tutto il resto. Nessuna di queste ciambelle è uscita col buco. Perché gli ingredienti erano sbagliati, il dosaggio idem, i tempi di cottura a fare il resto.

Ci lasciamo alle spalle uno dei peggiori eventi in casa AEW, non senza possibilità, però, di ripartire immediatamente. Perché i semi dei pillar sono stati piantati bene, perché BCC ed Elite hanno chiaramente un’evoluzione in corso (Kota Ibushi come equalizer?), perché adesso viene il bello. Con la Summer of AEW, che come da annuncio di Tony Khan, peraltro, diventa anche la Summer of Punk. L’ennesima.

Scritto da Andrea Samele
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