Il Wrestling che non ci vuole più

Wrestling

Titolo provocatorio, probabilmente inesatto, ma importante per capire ciò che oggi vorrei analizzare e porre all’attenzione dei lettori.


Appartengo a quella generazione di ragazzi nati nei primi anni ottanta che ebbero modo di appassionarsi al pro wrestling a cavallo fra la fine di quel decennio e l’inizio del successivo, gli anni di buio, pochi col senno del poi ma un tempo infinito in un’epoca in cui internet ancora non era parte della nostra quotidianità, brevi flash su ciò che stava avvenendo oltreoceano nella WWE ma anche nella WCW per poi ricadere nell’amore per questa disciplina con l’arrivo sugli schermi italiani proprio della World Championship Wrestling.

Sono passati ormai ventisei lunghi anni dal ritorno del wrestling all’interno dei palinsesti della Tv italiana, di acqua sotto i ponti ne è passata una quantità incalcolabile, ed in effetti sono molti i cambiamenti a cui abbiamo assistito. Proprio di questi cambiamenti vorrei oggi parlare ponendo l’accento sul pubblico, sulla cosiddetta fanbase, un concetto negli anni estremamente fluido se parliamo di una promotion globale come la World Wrestling Entertainment.

WrestleMania 41 è ormai stata consegnata agli archivi e a far discutere molti fan non è stato tanto l’evento in sé ma, come avvenuto per l’episodio di Smackdown svoltosi nel nostro paese, a lasciare molti di noi perplessi è stato innanzitutto il caro biglietti. Migliaia e migliaia di dollari per poter assistere all’evento nelle prime file, i posti più economici con visibilità limitata partivano, per entrambe le serate, dalla modica cifra di 600 dollari.

Intendiamoci, oggi il brand WWE è più forte che mai. Non ricordo un periodo di espansione così forte dalla parte della compagnia, nonostante abbia sempre dato un peso considerevole al mercato internazionale, ma mai come in questi ultimi anni. Il roster inoltre è estremamente ricco di atleti provenienti da ogni angolo del pianeta, gente come Sheamus, Drew McIntyre, Rhea Ripley, Gunther e molti altri rappresentano, oggi come non mai, un chiaro esempio di come la compagnia abbia legittimato il suo essere considerabile come una promotion di carattere globale non solo di facciata o grazie all’esposizione televisiva.

La WWE è da quarant’anni ormai, nonostante la profonda crisi dovuta all’exploit della WCW, sulla cresta dell’onda nel mondo dell’intrattenimento, con fisiologici alti e bassi ovviamente ma è sempre lì, questo perché sa adeguarsi alla società, ad una sensibilità collettiva estremamente mutabile anche nel corso di pochi anni e, di conseguenza, riadattare il proprio prodotto.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a campagne contro il bullismo, a prese di posizione a favore della comunità LGBTQ, alla cancellazione di characters fortemente stereotipati e storyline decisamente più sobrie rispetto all’Attitude o alla Ruthless aggression era, il tutto con l’aumento esponenziale anche di atleti afroamericani nei piani alti delle card. Un’agenda quindi estremamente più inclusiva rispetto al passato. Nulla da eccepire su queste scelte, sul piano aziendale assolutamente legittime, tuttavia hanno portato a profonde modifiche in quella che è la fanbase della compagnia snaturandone l’anima.

Il wrestling è sempre stato uno spettacolo popolare, potenzialmente alla portata di tutti parlando di eventi dal vivo. Pay per view e via cavo forse erano un lusso, per quanto i prezzi fossero assolutamente accessibili alla classe media. Oggi al contrario, per quanto il contenuto televisivo sia maggiormente fruibile a prezzi contenuti, l’evento dal vivo ha visto aumentare esponenzialmente i propri costi diventando un qualcosa indirizzato ad un pubblico elitario e non certo popolare.

Il punto, però, non è soltanto chi può permettersi di entrare in un’arena. È cosa rappresenta oggi questo pubblico, e soprattutto cosa cerca davvero dal wrestling. Il fan medio presente nelle prime file di un evento WWE non è più quel ragazzo di provincia con una passione viscerale per il ring, cresciuto a pane e pay-per-view piratate, ma un consumatore evoluto, spesso benestante, perfettamente integrato nel circuito culturale dominante. Una fanbase altamente social, che ha bisogno di sentirsi parte del momento, più che comprenderne la costruzione. Il wrestling non viene più “vissuto” nel tempo lento della narrazione, ma metabolizzato in clip da trenta secondi su TikTok, tra pop isterici e “This is awesome” distribuiti con generosità anche quando manca qualsiasi reale progressione narrativa.

In altre parole, si assiste allo spettacolo, ma raramente lo si capisce davvero. Dopotutto la WWE oggi non è considerata diversa da molti eventi di massa, come può banalmente essere una partita della nostra serie A dove, nonostante uno spettacolo spesso non così esaltante, gli stadi risultano spesso pieni, semplicemente perché questi eventi sono “Instagrammabili”, condividere l’esperienza è forse oggi più importante di ciò che l’esperienza può darti su un piano non solo qualitativo ma anche emozionale.

Curioso poi l’atteggiamento della WWE nella persona di Triple H con i suoi attacchi a quei fan spesso critici nei confronti del prodotto. Il gusto intendiamoci è personale, ma è avvilente la presa di posizione per la quale i fan debbano limitarsi a fare i fan e, al tempo stesso, tremendamente ipocrita il mostrare nei videoclip di recap delle Premium Live Event le reazioni entusiastiche degli streamer. È un sottilissimo circolo vizioso, una strategia di marketing estremamente scaltra.

Uno streamer, che sostanzialmente è un fan con una webcam e spesso un discreto numero di followers, nel momento in cui vede la propria immagine su Netflix o USA Network cosa potrà mai fare? Criticare il prodotto o esaltare ogni aspetto del booking sperando di apparire nuovamente in Tv? La domanda è assolutamente retorica, conosciamo la risposta essendo la scelta assolutamente umana e comprensibile. Ovviamente le sue parole poi influenzeranno molti dei suoi seguaci i quali crederanno davvero che ogni singolo match o angle proposto dalla WWE sia oro colato.

Grottesco inoltre sentire il coro “ECW ECW” per Paul Heyman, o nel momento in cui viene utilizzato un qualsiasi oggetto contundente. Un coro, urlato da questi fan, completamente svuotato del suo significato da gente che in mezzo a quel pubblico di Philadelphia a cavallo fra gli anni novanta e i duemila non avrebbe retto per quindici minuti.

La WWE oggi, rispetto alle ere già citate, ha meno bisogno di un pubblico generalista, ha i propri fan, fan però spesso difficili da identificare come fan di wrestling, ma piuttosto come fan della WWE, di questa WWE, figli del loro tempo come noi lo siamo stati del nostro, fan desiderosi di assistere ad uno spot ad effetto, ad un ritorno a sorpresa, ma forse poco attenti alla psicologia, poco propensi a capire cosa possa rendere un grande un momento o un match anche senza combo di manovre da videogame, pronti a segnalare un botch come una maestra delle elementari un errore di ortografia con la proverbiale penna rossa.

E così eccoci qui, a guardare il wrestling cambiare pelle ancora una volta. Non è la prima volta, e non sarà l’ultima. La WWE ha vinto tutto, anche il diritto di riscrivere le regole del suo pubblico. Noi, che ci siamo cresciuti dentro, possiamo solo osservare, con affetto, con rispetto, a volte con fastidio, questo nuovo ecosistema dove lo show è sempre più forte della lotta, e la vetrina più importante del ring. Forse è giusto così. Ma non venite a raccontarci che è migliorato: semplicemente, non è più per noi.


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Scritto da Matteo Carminati
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