SummerSlam ci ha lasciato in eredita Brock Lesnar come nuovo sfidante di un Titolo e Goldberg lanciato a vincere l’altro. Viene spontaneo dire quello che spesso abbiamo detto: sembra il 2003. E in effetti la storia sembra ad un passo dal ripetersi, oltretutto quasi nello stesso periodo dell’anno. È esattamente così, è un déjà-vu, però l’errore è pensare che lo sia del 2003.
Il presentimento di esserci già passati o anzi, peggio, la sensazione di non esserci mai mossi è assolutamente comprensibile. L’era abbastanza dorata di inizio millennio, però, non c’entra nulla. Più che di 18 anni fa, si parla degli ultimi 10 anni in cui è sempre, sistematicamente successo questo. Nella speranza di attirare nuovo pubblico occasionale o per chissà quale altro feticismo, si è dato spazio solo ed esclusivamente ai soliti vecchi volti noti e a qualche part timer. Sempre mettendo da parte la logica, il gusto, le storyline o la necessità di raccontare un qualche tipo di narrazione vagamente accattivante. A pensarci bene, infatti, SummerSlam è stato solo uguale a tanti altri PPV, tanti altri Big Four, tanti altri SummerSlam. Gli stessi ingredienti, i soliti colpi di scena qua e là un tanto al chilo, i soliti nomi. E il problema è che lo sono da 10 anni e negli ultimi 10 anni: che Goldberg e Lesnar, così come Cena, Orton o Edge fossero le risposte nel 2003 è normale ed era pure giusto, doveroso. Così come è doveroso notare come potessero essere ciò che meritavano perché c’era lo spazio che loro non concedono adesso. Anacronistico più che mai nell’anno dei mille licenziamenti in nome della famigerata – e quantomeno peculiare – spending review che però ha ovviamente riguardato il sottobosco quasi in esclusiva. Un divieto del nuovo, insomma, inseguendo l’usato sicuro, anche se allo sfinimento. Per popolarità al di fuori del mondo del wrestling, per motivi tangenziali e convergenti e che però sanno di risposta vecchia e inadeguata. Soprattutto nella settimana di CM Punk, nel momento in cui l’alternativa dimostra che c’è una via per arrivare oltre che non è quella che hai sempre percorso ostinatamente.
Perché a dar fastidio di più, in fondo, è solo l’inefficacia. Non lo spreco di talenti giovani, non il rifiuto di costruirne di nuovi, non l’assenza di storie interessanti. E non è neanche il sorbirsi sempre la solita solfa o l’aver cozzato duramente contro la realtà nel giro di 24 ore: a fronte di un ritorno che manderà avanti il prodotto e il wrestling, ce ne sono stati due che fanno solo tornare indietro le lancette. Sta tutto qui. A dar fastidio di più è l’inefficacia annunciata di queste mosse perché mai, negli anni scorsi, hanno funzionato; mai sono servite al loro scopo. Il calo degli ascolti e l’essere in rotta con i tifosi non sono problemi nati in pandemia, né di recente. E troppe volte a Stamford si è cercato di correre ai ripari con il solito codice di emergenza: Lesnar-Goldberg-Cena. In generale coi part timer, corpi estranei, oro da altre miniere. E troppe volte, tutte, non ha funzionato. Non lo ha fatto nel 2017, quando Goldberg pose fine al regno di Kevin Owens nello stesso modo in cui Becky Lynch ha interrotto quello di Bianca Belair oggi – e facendo gli stessi danni –, per traghettare la Cintura più importante della compagnia a ostaggio di The Beast e della sua assenza. Non lo ha fatto proporre proprio Reigns contro quel Lesnar, con dei risultati ancora adesso nell’archivio degli orrori dei fan. Ma non lo hanno fatto nemmeno le altre cocciute direzioni intraprese, sempre e rigorosamente lontane dal semplice raccontare una storia attorno a dei personaggi. Si naufraga sempre nello stesso mare, sempre chiedendosi perché la nave affondi, senza mai provare ad evitare l’iceberg. L’elogio della follia, direbbe qualcuno: aspettarsi risultati diversi facendo sempre la solita cosa.
Perché in fondo di sacrifici di personaggi, Cinture ed eventi se ne fanno e se n’è sempre fatti, in nome di cose giuste e, soprattutto sbagliate. Ma il punto non è l’Arabia Saudita – altra non casuale coincidenza – e nemmeno il main event infarcito di vecchi. Il punto è che, appena tornati alla normalità, appunto, si è schiacciato il tasto play, per riprendere da dove si era rimasti. Vale per Lesnar, vale per Goldberg, vale per Reigns, vale per Lynch, varrà per gli ascolti. Vale per tutti, soprattutto per noi. Questo non è il 2003, stiamo ripartendo dal febbraio 2020.