The Hard Truth #18 – Cena per uno

The Hard Truth

La Chevrolet Chevelle SS 1970 scintilla sotto il sole del mattino, parcheggiata con orgoglio sul vialetto dell’hotel, come una regina che aspetta il suo re. Motore 454 Big-Block, assetto ribassato, interni restaurati in pelle nera e cuciture scarlatte, cerchi cromati simili a specchi deformanti di un sogno americano. Lucida, rossa, brillante. Una lama di rossetto sull’asfalto. Ogni dettaglio racconta una storia: dita sporche di grasso, sabati spesi nel silenzio del garage, sguardi orgogliosi riflessi nella carrozzeria. E’ la prima auto che ti comprasti con i soldi guadagnati sul ring. Non la più costosa, né la più veloce, ma quella che senti più tua. L’hai battezzata Christine, come la macchina indemoniata di Stephen King. Ma questa non ti avrebbe mai fatto del male. Lei ti ama, lo senti. Quando posi la mano sul volante, il cuoio sembra pulsare in un benvenuto silenzioso. “Piccola,” dici, “oggi andiamo a caccia di un troll.” Washington, Philadelphia, New York: cartoline d’asfalto che si dissolvono nel retrovisore. Ma quante strade devi percorrere, John Cena, per venire a capo dei tuoi pensieri?


Case, alberi, campi scorrono sfocati come fantasmi stanchi, ma i tuoi occhi sono offuscati da un’ombra fattasi troppo grande. Ne hai passate tante, nella tua carriera. Sei stato il bersaglio di amore e di hating come nessun altro wrestler. Hai conosciuto ogni tipo di fan: folli che maledicono il tuo nome, ragazzine che lo urlano rapite, disperati che lo scrivono con odio. Eppure nessuno era arrivato a turbarti come colui che ti sei deciso a combattere. Era partito in modo banale: meme, battute idiote, prese in giro sulla tua presunta incapacità a lottare, la tua “workrate”, tirati avanti per anni sui tuoi social. Col tempo la sua amarezza si è fatta ossessione, e in qualche modo è riuscito a ottenere la tua email personale: da allora ti inonda di messaggi ogni giorno, con insulti prima generici e poi sempre più circostanziati. Sembra sapere tutto di te. Le date, i luoghi e i retroscena di ogni tuo match. Conosce aneddoti mai trasmessi, soprannomi d’infanzia, perfino i nomi delle tue prime auto. Dato che non lo hai mai degnato di una risposta, è passato a minacce, fin troppo specifiche e circostanziate: “Smetti di ignorarmi”, scriveva, “o tu, o qualcuno che ami, la pagherà cara. Forse i tuoi genitori, in quella bella casa con le ortensie?”

La notte ha già avvolto le dolci colline dell’Est, e i potenti fanali della Chevrolet mettono a nudo la strada di campagna rompendo il chiaro di stelle. Ma tu non dormi. La tua indignazione non conosce stanchezza o riposo. Un ricordo ti assale come un colpo a tradimento: la voce di tua madre al telefono, rotta dal pianto, sconvolta come non l’avevi sentita in vita tua. Un gatto randagio amato e nutrito dai tuoi genitori, venerato come un’istituzione nel loro quartiere, era stato recapitato nottetempo in una scatola davanti alla porta. La testa era stata separata dal corpo e deturpata come una maschera di Halloween cucita con l’odio, mentre col sangue della povera bestia il folle aveva scritto sullo stipite “Voi siete i prossimi”. La rabbia ti brucia nel petto, più feroce di qualsiasi colpo sul ring: per quanto rancore possa avere per te, per quali possano essere le sue ragioni, non potrai mai perdonare chi arriva a seviziare una creatura indifesa. Annebbiato dall’ira, non vedi l’incrocio che emerge dal buio come una trappola, e non scorgi il Tir che sopraggiunge a velocità folle, pronto a farti volare all’altro mondo con l’impatto di cento milioni di suplex.

Nessun fan ad acclamarti, nessun dollaro a proteggerti: solo tu e un mostro d’acciaio che ti vuole morto. Ma Christine è con te. Il cruscotto si accende per un istante, sussurrando un richiamo muto, mentre l’auto tiene la strada con un fremito basso, quasi guidata da una volontà propria. Realizzi la collisione imminente e il pedale si abbassa sotto il tuo piede, ma per un secondo ti sembra che la Chevelle abbia agito per prima. Le gomme possenti mordono l’asfalto lasciando un solco profondo, a memoria della notte in cui John Cena sfiorò la fine. Il gigante cromato ti sfiora la fiancata e scompare nell’oscurità, come un incubo respinto all’ultimo secondo. “Grazie tesoro” mormori, accarezzando il volante. “Da adesso non mi distrarrò più”.

Nelle cinquanta miglia che ti separano dal tuo obiettivo, ti concedi solo brevi squarci di pensiero. Ormai ti saresti rivolto a chiunque pur di acchiappare quel criminale, e Mustafa Alì, ex poliziotto informatico ed hacker pentito, era l’uomo giusto. Tanti wrestler nascondono talenti che il ring non rivela. Ricordi le sue parole come se le sentissi in questo momento: “Il web è pieno di gente che si nasconde dietro mille nickname. Ma tutti lasciano tracce. Il tuo ‘amico’ ha fatto l’errore di usare sempre gli stessi account da IP dinamici. E quell’IP punta a pochi isolati da casa dei tuoi. Ti do il suo nome, ma vacci piano con lui. Da ciò che ho capito, è solo un povero disadattato”. Può essere anche il pezzente più miserabile d’America, ma non avrai pietà nei suoi confronti. Batti il pugno sul cruscotto e Christine ti rimbrotta con un lieve sibilo dal motore, quasi ad avvertirti di non esagerare di nuovo. Ma ormai il tuo viaggio è finito. Le villette a schiera, le scuole ordinate, i giardini tagliati al millimetro, la candida chiesa di West Newbury, Massachusetts si aprono come un ventaglio sotto una calma irreale. E’ sempre stato un luogo di pace, dove gli stanchi pendolari di Boston si riposavano dalle fatiche diurne. Adesso conoscerà la tempesta. Parcheggi la Chevelle dicendole di aspettarti finché non avrai finito, e bussi alla porta per entrare nell’antro del mostro.

Sua madre è sorpresa e deliziata dalla tua vista. Dopotutto qui sei l’eroe locale, non c’è famiglia che non ti veneri e non segua le tue imprese. E’ una gentile signora sulla sessantina, ancora piacente ma dal viso spossato. Le deve causare non pochi pensieri, un figlio del genere. Sembra essere del tutto all’oscuro delle “prodezze” del suo rampollo, per cui non le riveli troppo. Inizia a preoccuparsi quando la informi che i motivi della tua visita non sono del tutto piacevoli: “Il mio bambino è così caro… un vero genio, come pochi ne esistono al mondo, ma schivo e solitario. Gli preparo il pranzo ogni giorno, e ogni giorno lo lascia lì. E’ troppo impegnato per perdere tempo a mangiare, mi fa capire. Sta lavorando a un progetto importante. Ha combinato qualcosa? Non è cattivo, solo incompreso: magari, se avesse più amici…” Tronchi il discorso e ti fai indicare la porta del seminterrato dove quell’essere passa le sue giornate. Gli farai prendere una paura che non ha mai provato. Scendi le scale, ma quello si è già accorto del tuo arrivo e ti aspetta alla base. Sfodera un ghigno a 32 denti e porta avanti la sua migliore interpretazione da Joker. Si inchina con grazia simulando uno scappellamento elegante: “Brian Christopherson, nerd per natura, troll per vocazione”.

O almeno, queste sarebbero state le sue intenzioni. Tutto ciò che senti è un farfugliamento sconnesso, quasi incomprensibile: “B…Brian… Chriss… Chr…sto… phers… nerd… voca… troll…” Ti sforzi di capire. E’ come se le parole uscissero da un pozzo secco. Lui deglutisce. Vorrebbe ripetere la frase con chiarezza, ma esce solo un mugolio deformato, quasi un lamento. “Ragazzo…” esclami sorpreso, “da quanto tempo non parli con qualcuno?”

Ti guardi intorno. Il seminterrato è buio e ingombro di scaffali stracarichi, poster sbiaditi, pupazzetti sparsi, pile di riviste, torri di fumetti e DVD ammassati come reliquie. Un odore di chiuso e di polvere aleggia nell’aria. Lo guardi meglio in faccia e un brivido ti sconquassa le membra. Quello che hai davanti a te è uno scheletro umano. Ha un’altezza di tutto rispetto, circa un metro e ottanta, ma il suo peso non raggiungerà i cinquanta chili. Ha occhiaie profonde come se non dormisse da giorni, e sembra non fare una doccia da mesi. Una zazzera storta, ispida come paglia vecchia, cade a brandelli sul volto scavato da mesi di solitudine. Le labbra secche si muovono a vuoto. Indossa una maglia macchiata, probabilmente di sugo o ketchup, con la scritta “Workrate Matters”. I pantaloni sono laceri, sformati. I piedi nudi, lividi, affondano in una moquette polverosa. Sul vassoio accanto al PC c’è un pezzo di pane vecchio, morsicato a metà. Lo guardi in silenzio. Dentro di te, qualcosa si spezza. Non sai se sia comprensione o solo stanchezza. Ma il pugno resta chiuso a metà. Un’ondata di pena irrompe sopra lo sdegno: “E sarebbe QUESTO il terribile troll che voleva fare del male alla mia famiglia?”

Ritenta il suo ghigno sarcastico, ma non riesce più a sostenere lo sforzo. Si accascia flaccido sulla sua sedia davanti al computer, come una marionetta senza fili. Nella stanza il silenzio pesa come piombo. Prova ad alzarsi con solennità, ma è troppo debole. Poi tossisce. Si appoggia al tavolo per non crollare. Alla fine, mettendoci tutto se stesso, sussurra con un filo di voce le prime parole coerenti : “Volevo solo che ti accorgessi di me”… “Facendo a pezzi una povera bestiola innocente? Ti rendi conto di quello che hai fatto?” gli ringhi cercando di recuperare l’indignazione. Ma la sua risposta ti smonta. “A me piaceva, quel gatto. Gli davo da mangiare, qualche volta. I miei lo hanno trovato nel nostro giardino, morto di vecchiaia. Ho colto l’occasione per lanciarti un segnale. Ho esagerato, lo so. Quelle centinaia di horror scadenti che ho visto mi hanno incasinato la mente. Se potessi tornare indietro, non lo rifarei. Me ne vergogno troppo.” Lo osservi ancora, poi mormori piano: “E io che volevo romperti le ossa…”

Ma è solo l’inizio. Adesso che ha ripreso facoltà di parola, il tuo avversario sembra svuotarsi di tutto ciò che ha tenuto dentro per mesi. “Mia madre ti avrà accennato del mio grande progetto. Non ne ho uno. Ciò che facevo… era esclusivamente trollare. Andavo in una comunità online, seminavo scompiglio, parlavo male del wrestling in generale, portavo i mark ad insorgere contro di me per difendere il loro sport preferito, e li facevo bannare. Una volta raggiunto il mio scopo, me ne andavo. Ma non è sempre stato così. Prima avevo… una persona con me. Era un ingenuo e un idiota, prendeva sul serio tutto ciò che vedeva, ma mi faceva compagnia. Guardavamo insieme gli show… della AEW, figurati. Un giorno mi sono sentito invidioso di lui perché hanno detto che era più portato al wrestling di me: proprio di ME che conosco ogni singolo tipo di mossa mai eseguita, ti rendi conto? Non potevo sopportarlo. L’ho cacciato via dicendogli di non tornare più, ma devo ammettere che da allora… mi manca. Dicevo di non avere bisogno di nessuno. Ma ora lo so: era una bugia. E tu eri la persona più grande che potessi attirare.

Non ti piace come sta proseguendo il discorso, ma lo inviti a continuare. Prende sempre più confidenza e un fiume di parole esonda dalle sue labbra smunte: ” Ho sempre avuto un rapporto di amore e odio con te, caro Cena. Da piccolo ti ammiravo, sei l’unico wrestler per cui abbia mai tifato, ma ti ho rinnegato da quando ho scoperto internet, Meltzer e l’ideologia smart. Facevano di te il simbolo di tutto ciò che non andava bene nel wrestling, dell’incapace senza talento che domina l’industria per fin troppo tempo, e io ho abboccato in pieno alle loro teorie. Per tanti anni ho solo irriso le tue qualità nel lottato, ma da quando sono completamente solo… anche cercare di far sbottare i mark non mi basta più. Ti ho preso di mira scrivendoti decine di volte ogni giorno, sono diventato perverso e ossessivo, ma tutto ciò che volevo era la tua attenzione. Desideravo una persona con cui parlare, anche se in modo sbagliato e distorto. Non hai pensato che avresti potuto evitare tutti questi casini se, anche solo una volta, mi avessi risposto quando scrivevo messaggi non così minacciosi alla tua email personale?”.

Per la prima volta in carriera, non sai come replicare alle parole di un avversario. Anche tu, fin troppe volte, ti sei creduto superiore ai fan molesti invece di tentare di capirli. Il grande campione non poteva abbassarsi al loro livello. Una cortina di imbarazzo scende sulla stanza sovraccarica di cimeli, e cerchi disperatamente un modo per superare l’impasse. Dopo diversi secondi di panico, il tuo sguardo si posa sullo schermo del suo PC, dove campeggia un documento di Excel dall’aspetto assai interessante. Lo guardi, scorri le pagine e non puoi credere a ciò che vedi: è un database di tutte le mosse esistenti o anche solo concepite nella storia del wrestling, dalla più insignificante alla più elaborata, catalogate e descritte con una precisione e una chiarezza al di là delle capacità umane. Ci saranno voluti vent’anni per completare un lavoro di tale portata. “E’ tua questa roba?” gli chiedi in tono sinceramente stupito e ammirato. “E’ per questo che prima dicevi di conoscere tutte le mosse?” “E’ l’unica cosa che so fare. Analizzare, catalogare, classificare. Ma è evidente che non serve a nulla”. Ormai ha perso ogni cenno della boria e dell’odio che lo aveva sospinto finora.

“Non è vero”, gli rispondi. “A me serve. E sarebbe utile a tante altre persone. L’ora del mio ritiro è vicina, ma non è troppo tardi perché possa imparare qualcosa di nuovo. Magari mi puoi insegnare qualcuna di queste manovre?” Io… insegnare… a te?” balbetta Brian con voce rotta. La sua corazza ormai è spezzata. Deve essere la prima volta che, in trent’anni di vita, qualcuno manifesta interesse e stima per il suo lavoro nerd. Ogni tuo proposito di vendetta è volato via. E’ molto più onorevole e giusto aiutare un’anima in difficoltà. “Mi rimane solo un dubbio.” gli chiedi. “Come fai a sapere così tanto su di me? Posso capire i match, ma i dettagli di cui non parlo in giro?” Stai scherzando? Qui sei un personaggio di culto. Basta chiedere a quelli della tua età e viene fuori ogni particolare della tua vita. L’auto che ami di più… la chiami Christine, vero?” “Ci hai azzeccato. E’ la macchina migliore di tutte, e sta proprio qui davanti. Ti andrebbe di farci un bel giro? Ti porto dove vuoi. O meglio, lascia fare a me. Ti piacerà, vedrai”. Non dice nulla, ma una determinazione insospettabile sembra animare il suo fragile corpo. Spegne per la prima volta il PC dopo mesi e sale a fatica le scale. Non prende oggetti o bagagli con sé. Annuncia alla madre di non aspettarlo quel giorno, e forse neppure il successivo. La poveretta ti guarda smarrita. Le sorridi piano: “Non si preoccupi, signora. Ci penso io”.

La Chevrolet fende come un diamante la grande autostrada nella dolce brezza della sera. Siete diretti verso il Performance Center della WWE per apprendere mirabolanti mosse segrete, verso l’arena del tuo prossimo match dove Brian sederà in prima fila, o forse verso nessun luogo in particolare. E’ il viaggio che conta, non la destinazione. Il tuo troll personale non ha più detto una parola, ma non c’è tensione. Solo silenzio, e qualcosa che assomiglia alla pace. Sterzando appena e accarezzando il cruscotto, chiedi: “Christine, ti piace portare a spasso il nostro nuovo amico?” Il possente rombo dell’auto prodigiosa suona come una netta risposta affermativa. La tua ragazza è contenta. Non noti che, dietro le spesse lenti, gli occhi di Brian per un istante splendono dell’ombra di un sorriso.

E la verità, amici miei, soffia nel vento…


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Scritto da Federico “Colosso” Moroni
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