WWE Planet #960 – Questione di valori

WWE Planet

Seguire gli show di una compagnia significa non solo condividerne la storia, le storie e i personaggi ma anche identificarsi con la tipologia di idee promosse, essere soddisfatti dal prodotto offerto, trovare identificazione – sia pur parziale – lo spessore e i crismi del racconto portato avanti. Nulla di impegnativo, non ha a che fare con i principi più fondamentali di ognuno di noi ma, più semplicemente, con la condivisione di un’ottica comune. Insomma è una questione di valori.


Ormai è chiaro che ci sia un dislivello nel punto di continuità tra quello che ha valore per la WWE e quello che ha valore per il pubblico. Con eccezioni, senza estremizzare, ma per la maggior parte dei fan dl wrestling il valore assoluto è e resta una Cintura, soprattutto quella “mondiale”, quella principale di un roster o di una compagnia. Da Day 1 in poi è diventato lapalissiano, qualora non lo fosse già prima, che per la WWE questa consuetudine è passata in secondo piano. Se una volta era il possesso di un Titolo a regalare automaticamente valore a chi lo indossava, ora è semmai il contrario: una Cintura è priva di valore se è lontana dalla vita di quel ristretto novero di wrestler che sono considerati al top. Se il recente regno di Big E non bastasse come dimostrazione di questo assunto, si potrebbe facilmente iscrivere anche le meno fresche run titolate di Bray Wyatt e Drew McIntyre – tanto per fare nomi – a quella che diventerebbe una lunga lista di reperti da ascriver al registro. Essere il campione mondiale non è mai bastato per assicurarsi l’attenzione dei fan, ma ora non è più sufficiente nemmeno per avere la garanzia di quella del team creativo. La scrittura, avere una storia da protagonista, non essere relegato a figura sullo sfondo non è più appannaggio dei Campioni, ma di pochi eletti.

Ed ecco che i Campioni si ritrovano a raccontare le storie degli altri, ad essere uno strumento narrativo lì solo per essere sfruttato, utile ad altri. Per poi essere abbandonato in men che non si dica o, ancora più frettolosamente, sacrificato all’altare degli intoccabili. Senza nessuna eccezione applicabile. Da quasi 10 anni la figura di Brock Lesnar e quella di Roman Reigns sono le testimonianze più lampanti di questa pratica. Che nel 2022 trova nuova linfa: Lesnar si prende un Titolo a caso, solo perché Lesnar, anche se completamente avulso, in risposta ad un’emergenza che tale non era e che era ampiamente gestibile in altra maniera. Con buona pace di storie precedenti, senso comune e, appunto, del valore di quella Cintura. Un accessorio che un personaggio colleziona in quanto tale, che non aggiunge nulla e che semmai diventa decoro. Un club esclusivo ma fondato sul nulla, che non permette ingressi e che quindi resta un cieco girare in tondo. La storyline tra Reigns e Lesnar è più grande dei Titoli, di entrambi, che infatti sono un fastidio, una distrazione nei loro percorsi convergenti. E ciononostante, restano ancorati a loro come se fossero imprescindibili, impedendo alle Cinture stesse di andare a riempire il vuoto che hanno lasciato, aggiungendo valore a ciò che non ne ha. Avere una Cintura è un orpello, che costringe chi la indossa a cannibalizzare territori storicamente avulsi anche al femminile, dove una Campionessa sente il bisogno di rincorrere il posto da sfidante in un match tradizionalmente escluso ai cinturati.

Alla lunga diventa difficile giustificare l’onnipresenza di taluni e la totale mancanza di proscenio per altri, anche in quelle zone della card e degli eventi dove si avrebbe o non si avrebbe titolo – in minuscolo – di stazionare. Depaupera il resto ma anche il primo piano, appiattendo la prospettiva e regalando forse qualche incognita ma al prezzo del disinteresse generale. Al punto da pensare di non essere più sulla stessa lunghezza d’onda, riunificazioni scampando.

Scritto da Daniele La Spina
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