The Hard Truth #9 – La cultura della vittoria

“Ci ho provato fino alla fine, mi dispiace. Però queste sono lacrime di gioia. Sono troppo contenta, è il giorno più bello della mia vita”.
Un deludente quarto posto a un centesimo dal podio, nella finale dei 100 rana alle Olimpiadi di Parigi, non ha frenato la giovane stella del nuoto azzurro, Benedetta Pilato, dal manifestare il proprio entusiasmo di fronte a un’Italia sgomenta: stava forse venendo meno il culto agonistico della vittoria a tutti i costi, a favore di un approccio più rilassato in cui chiunque si poteva ritenere soddisfatto riconoscendo il valore del proprio impegno? A poco è valsa la reazione furibonda di Elisa Di Francisca a sottolineare l’assurdità di festeggiare una medaglia di legno quando si parte da favoriti della competizione: il web è insorto compatto a favore della nuotatrice, personaggi influenti come la Pellegrini hanno dato il proprio endorsement alla collega, e il presidente Mattarella, in una mossa senza precedenti, ha chiuso la questione invitando al Quirinale non solo gli olimpionici vincitori di una medaglia ma anche il numero record dei quarti classificati.
Abbiamo forse sempre sbagliato nel sostenere che vincere è non solo importante ma l’unica cosa che conta? Il vero successo risiede nella gioia di averci provato, a prescindere dal risultato finale? Oppure è giusto provare dispiacere per una disfatta, perchè solo da lì si attinge motivazione per ripartire alla conquista? Forse fra tutti gli sportivi la risposta migliore la possono dare i nostri amati lottatori, perchè per natura abituati a sostenere la pressione di una disciplina dove il mero risultato può determinare l’andamento delle loro vite. E’ da loro che possiamo imparare l’esigenza di prevalere sempre e comunque su qualsiasi avversario, a qualsiasi età e in ogni condizione. Sono loro che possono fugare le tendenze ad accontentarsi dei giovani di oggi, e l’accondiscendenza dei loro genitori, per insegnare a tutti noi la cultura della vittoria.
“Ma che cosa stai dicendo??” salterà su lo smartone indignato. ” Lo sanno tutti che il wrestling è un’oasi felice dove vittorie e sconfitte non contano nulla, e allo spettatore non interessa il risultato dell’incontro bensì il match in se stesso! E’ uno spettacolo di danza coreografata in cui gli atleti cercando di coordinarsi al meglio in modo da beccarsi il plauso del pubblico!” A tali discorsi posso rispondere con una sola parola: SVEGLIA! Perchè un atleta dovrebbe accettare di perdere quando, in primo luogo, il responso che ottiene dai fan è basato sulla sua percezione come figura vincente? A nessuno interessa tifare per un loser di professione, anche se combatte incontri bellissimi mettendo sempre in buona luce il proprio avversario. E la storia del nostro business è stracolma di momenti chiave in cui un wrestler ha dovuto scegliere fra un destino da primattore e uno da sparring-partner: è stata la loro prontezza nel cogliere l’occasione a determinare la loro fortuna.
Prendiamo il troll di Chicago in persona. Prima della notte di MITB 2011 CM Punk era un gran chiacchierone che sboroneggiava sul proprio eccelso valore, ma non l’aveva mai dimostrato sul serio. Perchè noi spettatori avremmo dovuto credere il migliore del mondo un opportunista specializzato in incassi di rapina della valigetta, che non aveva mai battuto degli autentici main eventer (no, Jeff Hardy non può considerarsi tale) e veniva da un annus horribilis con status quasi azzerato e batoste a ripetizione? Il match contro Cena gli offriva l’occasione unica di svoltare la propria carriera: se avesse vinto se ne sarebbe andato da eroe con il titolo mondiale fra le braccia, mentre in caso di sconfitta lo avrebbe atteso un ritorno nelle fumose sale da bingo in cui sbarcava il lunario prima di essere notato da Heyman. E sebbene il verdetto sia stato tutto meno che pulito, e Cena sia apparso comunque il wrestler superiore… fu soltanto non avere fallito quando davvero contava ad aver reso Punk la figura di culto che conosciamo e subiamo ancor oggi.
Ancora più calzante è l’esempio dell’altro feticcio dei nerdoni più estremi, quel Daniel Bryan che tutti vedevano come una figura anomala, inadatta per enormi limitazioni fisiche e caratteriali a rappresentare il volto della federazione. Immaginate se, dopo avere invaso il ring con i suoi blindmark e ricattato la WWE per farsi assegnare il main event di Wrestlemania 30, Faccia di Capra fosse stato battuto senza appello da Batista e Orton e ricacciato nel midcarding. Avrebbe avuto ragione l’Authority a considerarlo un buon giocatore di Serie B, e a tenerlo nelle retrovie a favore dei superuomini che portavano ascolti e denaro; sarebbe cessato anche il supporto del pubblico nei suoi confronti, perchè a un certo punto la gente perde la pazienza e accantona chi non riesce a conseguire i propri obiettivi. E’ solo grazie a quell’affermazione di straordinaria importanza che un wrestler mediocre come Bryan ha potuto vivere di rendita fino ad ora, strappando ingaggi da sogno e imponendo il suo enorme peso politico per ottenere lo spot principale nei ppv più seguiti.
Altre volte non è una singola vittoria, ma una lunga serie di trionfi ad avere consegnato un atleta alla gloria imperitura. Per che cosa credete che Undertaker rimarrà nella storia se non per quella fantasmagorica Streak, che per decenni ha costituito la maggiore attrazione dello Showcase of the Immortals? Poteva affrontare giovani in rampa di lancio, giganti, pilastri del business, icone affermate ma state certi che il Becchino sarebbe sempre uscito da vincitore, conservando il suo status da Numero Uno più a lungo di qualsiasi altro wrestler. Una leggenda altrettanto splendente era quella di Goldberg, l’imbattuto fenomeno delle 173 vittorie consecutive, ritirato dall’industria ancora al top della forma … ma proprio il suo caso insegna quanto le sconfitte, anche in tarda età, possano compromettere la reputazione e il buon ricordo di un lottatore. Mal gliene incolse, in una torrida notte araba, quando un fiasco epocale contro un Undertaker ai minimi termini determinò chi dei due era il vero Phenom; e quanti danni gli fecero le scoppole subite da Reigns, McIntyre, Strowman, per nulla compensate da due regni in extremis come campione mondiale!
“Ma tu credi che solo i vincenti vengano ricordati nell’eternità?” esclamerà la nostra nemesi smart. “E allora Piper? Quello il cui massimo trionfo in 30 anni di carriera è un regno da campione intercontinentale?” Grande Hall of Famer, sicuramente. Un personaggio dallo stile unico e dal carisma inconfondibile. Ma quanti lo considerano davvero parte del monte Rushmore del wrestling alla pari di un Hogan, un Flair o perfino un Cena? Nonostante un’imbattibilità in tv show e ppv durata dal 1984 al 1992, la mancanza di affermazioni importanti ha ridotto il buon Roddy a figura di livello secondario, rispetto a chi del business è stato figura guida. Ed è inutile credere che in questo sport non si debba lottare per se stessi ma per far risaltare i colleghi: altruismo ed abnegazione non sono doti ma impedimenti che ti trascinano a fondo. Ne è prova il fatto che il più generoso di tutti i wrestler, Mick Foley, è anche ricordato come il perdente definitivo: sempre sconfitto, fregato, pestato a sangue, umiliato in ogni rivalità che ha sostenuto, e messo in secondo piano pure durante i suoi regni mondiali, durati lo spazio di un battito d’ali di farfalla.
Perchè alla fine il wrestling è pratico, materialistico, crudele: qualche fesso si può inventare il culto del match a cinque stelle, e una grande prestazione può essere apprezzata da chi vi ha assistito, ma alla fine ciò che resta veramente è il freddo risultato sugli almanacchi. Se vinci sei un mito, se perdi un idiota; e alla lunga non conta neanche vincere pulito o sporco, perchè certi record sono tanto incredibili che la gente non si chiede più in che modo siano arrivati. Stiamo forse a questionare il fatto che il Nature Boy ha imbrogliato all’ennesima potenza per ottenere la gran maggioranza dei suoi 16 titoli? E durante il già leggendario regno di Roman, stiamo a cavillare che ben poche, forse nessuna delle sue difese sarebbero state portate a termine senza l’aiuto della Bloodline?
Potrebbero mai tali campioni di spietato agonismo festeggiare un secondo posto in un Rumble, una corona sfiorata in un King of the Ring, un main event di Wrestlemania marchiato dalla sconfitta? Davanti a una simile ansia di eccellere, le parole della Pilato non appaiono altro che un maldestro tentativo di giustificarsi, un modo meschino di evitare processi per una prestazione sotto le attese. Non è da lei ma dagli assi del ring che i nostri Millennials potranno ottenere un’unica grande lezione: non vi accontentate. Siate feroci. Siate affamati. Rifuggite le vie di mezzo, le strade facili, le scorciatoie. Createvi un sogno e dedicate la vostra esistenza a cercare di realizzarlo. Non frignate sulle sconfitte, ma traetene ancora più rabbia per focalizzare le vostre energie sul prossimo obiettivo. Superate i vostri limiti. E una volta che la vostra brama sarà soddisfatta, non piangete di gioia: ci sono sempre nuovi orizzonti da esplorare, nuove sfide da superare, nuovi mondi da conquistare per chi come le leggende del wrestling fa della propria ambizione una ragione di vita.
E questa, amici miei, è un’altra vittoria della verità.
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