The Hard Truth #2 – Il talento questo sconosciuto

Il talento. La capacità innata, la disposizione naturale per spiccare e avere successo nell’attività che si è scelto di praticare. Non possono esistere calciatori, ginnasti, tennisti, cestisti, pugili di una certa importanza che ne siano privi. In un qualunque sport chi non possiede le doti giuste dalla nascita, e non è aiutato dai geni e dalla conformazione fisica farebbe meglio a non iniziare del tutto, perché diventerebbe al massimo un lurido mestierante, un grigio dilettante che trascinerebbe verso il basso il livello della disciplina. Quello dell’agonismo è un mondo crudele che non fa sconti a nessuno. Proprio come quello del wrestling e dei suoi fan. Anche per noi, e in particolare per gli smart più intransigenti, vige una concezione assolutistica del talento come unica discriminante per definire un lottatore. Ma quale particolare abilità nella nostra disciplina deve avere un wrestler per considerarsi superiore agli altri, per essere valutato come talentuoso? Uno dei grandi quesiti esistenziali della lotta avrà oggi la sua risposta definitiva, e sarà una che non dimenticherete mai.
“Ma noi sappiamo già la risposta!” diranno i puristi seguaci di Meltzer, quelli pronti a sezionare un incontro alzando cartelloni con voti da 1 a 10 ad ogni singolo suplex. “Il talento è la capacità di lottare, o meglio “workare” in sintonia con il proprio avversario: è la tecnica, l’eccellenza dell’esecuzione, l’abilità nello scegliere in ogni momento la mossa, il colpo o la presa la presa giusta per raccontare una storia e rendere più bello e appassionante l’incontro.”
Ma, amici meltzeriani, questa è solo la vostra parziale visione dei fatti. Il wrestling ha le basi di una competizione, di uno sport spettacolare. Ma è anche qualcosa di più, qualcosa di meglio. Il “saper lottare” non è mai stato determinante fino all’invenzione di internet. Sono i risultati a restare negli almanacchi e nella memoria degli spettatori, ma non tutte le vittorie hanno lo stesso peso. Ed è qui che entra in gioco il talento. Se un wrestler è in grado di prevalere senza disgustare gli spettatori, senza fare urlare alla finzione, e portando un’arena a cantare e gridare per lui, ALLORA ha talento. Può essere un uomo dalle mille manovre, o uno che sa contorcersi e volteggiare nell’aria meglio di una scimmia, ma resterà sempre un anonimo scarsone se non possiede la combinazione perfetta di look o presenza scenica, carisma e credibilità.
Bisogna capire che i requisiti di una Major sono ben diversi da quelli di realtà più piccole e meno competitive, come pure le pretese dei rispettivi tifosi. L’indyfesso può trovare magnifici e strabilianti quattro disperati tolti dalla strada e piazzati nelle palestre e nei baracconi, a patto che facciano tripli moonsault, 30 minuti di chain wrestling ininterrotto, o hardcore match colmi di sgozzamenti e sale sulle ferite. I suoi gusti semplicistici non hanno nulla a che vedere con quelli del ben più sofisticato fan medio WWE, che non si accontenta di mosse e combattimenti fini a se stessi ma vuole un buon motivo per sostenere un lottatore. Per questo il fisico non è un dettaglio marginale. Se si vuole essere presi sul serio, se si vuole dare l’impressione di veri atleti e non di barboni sfigati, è una questione di professionalità presentarsi in buone condizioni e gradevoli all’occhio.
Guardate AJ Styles. Un Vanilla Midget se ce n’è uno. Basso di statura, misero di aspetto, non dotato nell’eloquio…si è costruito una carriera non sul carisma o sulla capacità di intrattenere, ma sul mero atletismo. Eppure, ormai vecchio, stanco e incapace di eseguire le acrobazie che l’hanno reso famoso, ha capito che sarebbe sopravvissuto ad alti livelli solo dando una migliore immagine di sè: si è messo a posto col fisico, diventando robusto come un torello, e acquisendo finalmente l’aspetto di una legittima minaccia anche per qualcuno superiore al metro e mezzo.
E’ questo il diktat per chi vuole stare in televisione. Chi non si adatta merita di essere cacciato. E se la WWE non si decide ad epurare i reprobi, rischia di diventare come la AEW che ha affidato le chiavi del proprio destino a gente inguardabile come Eddie Kingston, Adam Cole e Bryan Danielson. L’esempio che tutti devono seguire è quello di Roman Reigns: un campione dal look imbattibile, dal carisma formidabile e a cui, vista l’esperienza in un duro sport come il football americano, non fa difetto neppure la credibilità. La WWE ha da subito creduto in lui e ha fatto bene, visto come ha saputo bucare lo schermo in qualità di leader silenzioso dello Shield; e gli osservatori più attenti, già nelle prime apparizioni scevre da caratterizzazione a NXT, avevano subito compreso quanto l’alone di talento che lo avvolgeva lo avrebbe destinato a grandi cose.
“Ma no, il Tribal Chief è scarso, ha fallito qualsiasi occasione da face, è stato ficcato inutilmente in gola agli spettatori per 5 anni!”urlano i suoi detrattori, incapaci di considerare quanto oggi negli USA perfino chi lo fischiava alla morte ha imparato a rispettarlo in quanto volto della compagnia più rappresentativo degli anni 2000. Ragazzi miei, preferireste al suo posto un altro Mick Foley carente sotto ogni aspetto? La disciplina non funziona come vorreste voi. Guardate Rollins che effetti disastrosi sta avendo sul roster che gli è stato incautamente affidato. Un Jinder Mahal, col suo fisico e la sua stazza, sarebbe un campione molto migliore e più credibile di un peso leggero dalla voce irritante, che veste da cretino ed è stato pompato solo da uno stupido meme di 3 note.
Perchè allora, vi chiederete, negli ultimi 20 anni si stanno moltiplicando i casi di wrestler inadatti giunti al top con successo? Le risposte sono di non facile interpretazione. Si è trattato molte volte di semplici mode del web, un argomento che merita di essere trattato a parte, o di fissazioni di promoter troppo ottusi per agire davvero secondo il Best for Business. Chi ha talento è in grado di andare over da subito con i propri mezzi, ma chi ne è privo ha bisogno di una costruzione certosina e maniacale per essere imposto agli ingenui e celare i propri difetti. Nascono così le patetiche soap-opera di personaggi comedy che pretendono di trasformarsi da zimbelli ad eroi della classe operaia: Sami Zayn, Daniel Bryan, CM Punk… Ma alla fine le magagne vengono al pettine.
Queste mezze figure vengono rigettate dal pubblico volubile che tanto le aveva acclamate, o si rivelano troppo fragili fisicamente o caratterialmente per sostenere la pressione che comporta il ruolo da leader. Perchè questa è la grande, dura lezione da apprendere. Se non possiedi le qualità fondamentali puoi gridare al mondo che sei il migliore, puoi tramare nell’ombra con la dirigenza, puoi costruirti una base di tifo nerdistico sul web ma alla fine inevitabilmente fallirai. Ci riproverai, e cadrai nella polvere di nuovo. Se non hai talento, puoi fare al massimo lo sparring-partner di chi ce l’ha.
E questa, amici miei, è la verità.
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