Gorilla Position #20 – 20 anni di Randy Orton

Gorilla Position

Correva l’anno 2004. Seguivo assiduamente Tuttowrestling.com, in qualità di lettore, e la mia rubrica preferita, tra le altre, era il The Pedigree di Alessandro Saracca. Con cui condividevo l’attesa spasmodica per la vittoria titolata di Randy Orton, al grido di #webelieve. Perché a quell’epoca la WWE faceva quel booking a medio/lungo termine con cui preparava i personaggi per il palcoscenico che più conta. E la vittoria nel main event di SummerSlam l’avevo accolta come quando Goku era diventato Super Sayan. Settimane e settimane di attesa, tra buoni e cattivi a circondarlo, fino al trionfo finale condito dal Be a man con cui Chris Benoit di fatto lo legittimava.


20 anni di carriera celebrati il mese scorso, riassunti in una clip che quivi vado a inserire senza ulteriori preamboli:

La carriera di Randy Orton è nata con una vittoria al debutto su Hardcore Holly ed è poi proseguita con l’apprendistato nell’Evolution, alla corte di Triple H. La stable che più di tutti mi ha impressionato nella mia carriera di spettatore quasi trentennale del mondo wrestling. Una palestra di vita che ha portato alla ribalta un talento incredibile. Uno che è nato per fare questo lavoro, che ci è proprio cucito su misura. In 20 anni, è difficile ricordare momenti in cui Orton ha perso connessione con il pubblico, in cui non è sembrato in bolla.

Un carisma con pochi eguali nella storia accompagnato da un fisico perfetto (infortuni a parte) e da una faccia che è quella lì. Ingiustamente, a parer mio, sottovalutato, nonostante la carriera e il palmares, per via di uno stile di combattimento avaro di grandi colpi. A parte uno. E che uno. Una delle finisher più iconiche che gli almanacchi del wrestling annoverino. Orton ha vinto tutto, veramente tutto. Eppure non se ne sente mai parlare quando si tira in ballo chi ha scritto la storia del ring.

Per il wrestling la credibilità è tutto, il realismo da portare nella finzione di una narrazione a tavolino. Proprio per questo, la longevità, il rinnovamento, la capacità di essere sempre un punto di riferimento in qualsiasi zona della card, nonché il sapersi sempre far trovare pronto per soluzioni di emergenza rendono Orton un unicum.

Già, perché non è facile scendere e salire nella card senza che questo risulti fuori luogo. Pensiamo a quanto Cody Rhodes abbia fatto fatica ad ambientarsi nel mid/low card di Dynamite. Dopo la rinuncia alla possibilità di competere per i titoli, Cody è rimasto imprigionato in un personaggio da main event, incapace di abbassare i toni perché la posizione nella card non è quella. Pensiamo a quanta fatica sta facendo Drew McIntyre per questioni di scrittura non aderente al suo status. O a quanto altri personaggi come Rollins debbano per forza derivare nel ridicolo per giustificare una retrocessione di card. A Orton puoi dare qualsiasi cosa, qualsiasi ruolo, qualsiasi copione e sei sicuro che porterà a casa la pagnotta. Un po’ come Chris Jericho, in questo senso.

Senza volerne riscrivere la biografia, ci sono tre momenti della carriera di Orton che voglio celebrare nel Gorilla Position di questo mese. Il primo è la faida che ha visto l’Evolution affrontare The Rock e Mick Foley, con vista su WrestleMania XX. Una serata che farà da apripista al futuro di Orton. Benoit infatti sconfiggerà Triple H (e Shawn Michaels) nel main event, mentre nel corso della card Randy Orton con la sua RKO su Foley ha portato a casa il punto per l’Evolution. Dopo aver condotto un feud impreziosito da segmento con The Rock e dalla sensazione generale di essere l’uomo di punta. E in questo, come accennavo sopra, il lavoro di scrittura da parte della WWE fu ottimo davvero.

Il giovane di belle speranze, che cresce alle spalle del volto della compagnia. Facendone le veci per curare le faccende di minore importanza, ma allo stesso tempo facendo esperienza. Preparando il terreno per quello che sarà il momento della consacrazione. Più Randy cresce, più Triple H sente che il suo regno del terrore è in pericolo e dall’interno. Cosa che, peraltro, avverrà anche con Batista. E così Orton vince il titolo, cerca il riconoscimento del suo mentore che per tutta risposta lo spedisce ad assaggiare il sapore del tappeto. Per aver osato prendere una cintura che non era roba sua.

La faida con Triple H riconsegnerà il titolo nelle mani del Cerebral Assassin, per bagnare d’acqua fredda la testa calda della third generation superstar. Ma se, molto spesso, un regno breve sembra la pietra tombale sulla carriera da main eventer di un performer (Big E vibes…), per Randy Orton è stato solo un nuovo inizio. Che ha coinciso con la faida contro The Undertaker, un’altra tacca da apporre alla cintura del Legend Killer.

Un feud condito da una narrazione al dettaglio, dai mind games alle finte uccisioni, e da un’interpretazione ottima delle parti in causa. La vittoria di Taker a WrestleMania, scontata ma non per questo banale, cui seguirono delle affermazioni della coppia Orton & padre. Un climax ascendente che ci porta allo shock genuino di Randy a Survivor Series 2005, quando uscito vincitore dal tradizionale match a squadre vede comparire la sua nemesi. Cui aveva dato fuoco solo qualche settimana prima a No Mercy in un Casket Match. Atmosfera pazzesca, rintocchi, fulmine che colpisce la bara. Undertaker che esce e Michael Cole che urla “The Dead has risen”.

E nel cammino verso l’epilogo, di settimana in settimana qualcosa in più, mattoncini, racconto, la paura di Orton, la resurrezione di Undertaker. L’importanza di Bob Orton, il ruolo dell’urna, le parole, anche qui, del commento che sottolineavano come il Legend Killer stesse cercando di piegare la leggenda. Le finisher rubate, l’icona della Tombstone violata, il confronto decisivo nel match dei match per il Becchino. Hell, in a Cell. Da leggere con la voce del buon Calaway, grazie. Un incontro epico, raccontato magistralmente dai due, soprattutto nella fase finale in cui Orton sembrava poterla chiudere, ma Undertaker da par suo si è rialzato. The end is here. The end is here. Tombston Piledriver. Quando il commento nobilita l’azione e passano 17 anni ma senza bisogno di YouTube ti ricordi tutto, beh, qualcosa vorrà pur dire.

Per non fare il boomer nostalgico, la chiudo con gli RK-Bro. Perché per anni abbiamo dovuto vedere Randy Orton heel, il test da face non è che fosse andato poi benissimo. E dal Legend Killer, al Viper, al Punt Kick, all’Authority, a Edge. L’unica cosa che forse mancava alla carriera di Mr. RKO era proprio questa, sapersi ritagliare uno spazio, anche da face, con continuità e in cui fosse la gimmick, in questo caso della coppia, a creare appeal e non la figura in sé di Randy Orton in quanto tale. E Riddle mi era totalmente indigesto, classico character stereotipato da imbecille made by WWE degli anni 2K. Invece la loro coppia è stata assolutamente godibile nel suo sviluppo. Nata per caso, ha mescolato due caratteri diversi che hanno preso fuoco facilmente. Direbbe Celentano.

Mesi a chiederci se splitteranno ora, alla Rumble, a Wrestlemania. Quando Orton si stuferà di Riddle e lo riempirà di mazzate? E invece non succede, perché questi due divertono e si divertono. L’uno a giocare con il suo idolo e l’altro a fare finta che quel saltimbanco appiccicoso e in perenne adorazione lo disturbasse. Quando in realtà la chimica funziona. La parte in ring funziona. L’interazione al microfono funziona. E purtroppo non succederà, ma se proprio dovesse esserci unificazione, viva Dio che siano gli RK-Bro a prendersi tutto.

Magari con l’ennesima RKO from out of nowhere, un marchio di fabbrica, che 20 anni fa come oggi, in linea di continuità il Tuttowrestling che fu, mi fa dire ancora: Randy Orton, #webelieve.

Scritto da Andrea Samele
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