The Hard Truth #3 – Le mode, cavalcarle o distruggerle

“La WWE deve dare al pubblico quello che vuole”.


Con questo frusto, vieto e logoro mantra il wrestling sta diventando sempre più simile ad un reality show, dove sono i fan a decidere chi deve vincere, perdere, diventare campione o stare fisso nel main event. Ma cosa fare quando l’atleta scelto dal pubblico non è quello che porterebbe più soldi nelle casse della compagnia? Come comportarsi se un wrestler inadatto in tutti i fondamentali, vecchio come la morte, con un aspetto da mostriciattolo delle caverne ha un improvviso picco di popolarità dovuto a fattori esterni, casuali e imprevedibili? E’ bene abbandonarsi alla demagogia soddisfacendo il minimo capriccio di un volubile WWE Universe. o tenere duro relegando i fan buzzurri e ignoranti nei seminterrati dei loro genitori? Solo una rubrica come questa è in grado di darvi la risposta definitiva, e sarete voi a valutare se è quella giusta.

Tutto cominciò con la Pipe Bomb. Il momento che guastò la nostra passione. Prima di allora gli spettatori accettavano docili qualunque lottatore o storyline che il vecchio Vince proponesse loro, e stava a loro apprezzarla o fischiarla, ma non si ergevano a padroni del vapore cercando di sovvertire  le scelte della federazione con movimenti popolari. Almeno fino a quando quell’orribile promo carico di livore, risentimento e delirio di onnipotenza rese il suo autore un guru per tutti i frustrati insoddisfatti che vegetavano nei meandri della IWC. A causa di CM Punk partì una rivoluzione che sovvertì le basi dell’industria: non contava più la bravura oggettiva, si poteva essere scarsi, mingherlini, deficitari atleticamente ma si era destinati al successo se si compiacevano i gusti distorti del 12% di nerd vocianti che sovrastavano la massa silenziosa nelle arene.

Il regno del terrore di Punk terminò con il primo dei suoi innumerevoli fallimenti, ma ormai la strada era stata spianata alla più perniciosa delle mode che mai funestarono la WWE: il fatale Yes Movement. Grotteschi panzoni sfigati con gli occhiali a fondo di bottiglia e la barba impregnata di sugo di pizza trovarono in Daniel Bryan una figura triste ed emarginata quanto loro, e resero quella di portarlo al titolo mondiale la loro nuova ragione di vita. Anche se il bene del business non prevedeva  la presenza di Faccia di Capra in un main event di Wrestlemania scritto nel cielo, che avrebbe premiato un Batista pronto ad assurgere al mito col successo dei Guardiani della Galassia, i rivoltosi tennero in ostaggio la federazione per mesi, minacciando di boicottare tutti i match, invadere il ring, fare a pezzi le arene… E ci riuscirono veramente nell’atroce segmento in cui centinaia di facinorosi vestiti come il loro idolo impedirono a Raw di proseguire finchè non avessero visto soddisfatte le proprie assurde richieste.

La WWE, invece di stroncare la moda, decise di assecondarla fino all’estremo, a costo di cambiare piani già stabiliti e buttare al vento un successo assicurato, ma non tardò a pagare una lezione durissima. Il pubblico, il giorno dopo avere visto il suo più grande desiderio diventare realtà, riservò un’accoglienza fredda e insignificante a Danielson campione; il regno del troll di Seattle partì nel modo più loffio possibile, con match combattuti a mezzo servizio e promo a dir poco scolastici; in poco più di un mese, inadatto a sopportare le pressioni dello sport più duro e pericoloso sul globo, il nanerottolo dovette alzare bandiera bianca, restituire il titolo e prendersi un anno sabbatico per infortunio, finché il suo fisico martoriato non ne esigette il ritiro (quasi) definitivo.

Umiliato e ferito, furente di rabbia repressa contro un’audience viziata e incoerente, Vince McMahon giurò allora che mai più le richieste di pochi barbari avrebbero stravolto ciò che lui riteneva fosse il meglio per la federazione. Tantissime mode effimere e strampalate si succedettero da allora: il Fandangoing, il Rusev Day, la follia collettiva per Damian Mizdow, perfino l’ascesa del re di Youtube Zack Ryder. Sbalzi di popolarità dovuti a una taunt, un balletto o una citazione, in ogni caso una cretinata demenziale priva di attinenza con il reale valore del wrestler. Fenomeni diversissimi fra loro ma con una conclusione comune: la mancanza di supporto da parte della dirigenza, che non puntò neppure in minima parte su questi atleti, portando il loro momentum ad evaporare senza rimpianti.

“Ma la WWE di adesso è più che mai pronta a titillare i capricci più sfrenati del pubblico” diranno i miei amici smartoni, sempre disposti a non arrendersi all’evidenza. Purtroppo il più grande genio creativo che l’industria abbia mai conosciuto è caduto in disgrazia, e chi ne ha preso il posto ha fatto dello smartservice, la ricerca ossessiva del plauso della minoranza più tossica, il suo marchio distintivo. Abbiamo così una tremenda nullità come LA Knight, clone malriuscito di un paio di leggende dell’Attitude, spinto di forza al top dopo essere stato messo alla porta dal buon Vince; abbiamo un imbarazzo della disciplina come Sami Zayn, lanciato nella stratosfera dopo essersi reso ridicolo per mesi in siparietti comici; abbiamo in generale un’ondata di nepotismo e raccomandazione per tutti i beniamini di internet che Triple H aveva già imposto nel suo NXT.

Il gruppo minoritario di nerd è tornato a pretendere di gestire in prima persona la federazione; ed ha acquisito un tale potere da cancellare di proprio pugno il main event di Wm più remunerativo di tutti i tempi, quello che avrebbe richiamato miliardi di fan casuali da tutto il mondo, solo perchè l’idolo del momento, un midcarder senza carisma e dall’aria insignificante, non ne faceva parte. Il caso Bryan si sta ripetendo, ed insegna una grande lezione a chi comprende il business nella sua interezza: cavalcare le mode più assicurare un successo momentaneo, può garantire che il tuo evento principale si chiuda fra l’esultanza smodata e non fra i fischi, ma ha SEMPRE conseguenze negative se i protagonisti lanciati sono privi delle qualità per restare al top.

Un wrestler scarso e senza prospettive può vivere l’inaspettato successo di una notte grazie a una particolare arena che lo prende in simpatia, e tale tifo può estendersi per emulazione ad altre città: ma sta a chi gestisce stroncare la moda se va contro i desideri della compagnia e non procurerà vantaggi a lungo termine. E se i fan non accettano che il loro ghiribizzo del momento venga messo da parte? Vanno messi al loro posto anche loro. Ci vuole un promoter con le palle che prenda il microfono e dica papale papale: “Ascoltiamo il casino che fate, ma non ci interessa. Il vostro dovere è cacciare i soldi e apprezzare quello che vi viene proposto. Se non vi piace, non sprecatevi neanche a venire. Siamo sopravvissuti più un anno con arene vuote per il Covid, sappiamo benissimo fare a meno di quattro sfigati controproducenti. Vi promettiamo di darvi i wrestler che fanno salire gli ascolti, e ci fanno guadagnare di più. Non pretendete di cambiare le cose. Seguiteci, perchè noi sappiamo ciò che è meglio per voi”. E l’applauso della folla, illuminata da tanta onestà, salirebbe fino al cielo in un rombo di tuono.

E questa, ragazzi miei, è la verità.


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