Ma anche in Italia non stiamo messi male in quanto a torture e totale noncuranza dei diritti umani. Vi porto così tre esempi.
Il primo esempio è il più famoso. Lasciando perdere il discorso se sia giusto o sbagliato il carcere come istituzione e come pena, resta il fatto che ci sono ma che a tutto servono tranne che a quello per cui in teoria son state concepite in uno Stato "moderno e democratico".
Situazione carceri in italia a giugno 2004 (ma tranquilli: la situazione è peggiorata. Solo che non riesco a trovare i dati):
iepilogando in totale su 56.440 detenuti presenti nelle carceri italiane al 30 giugno 2004, 49.529 detenuti (pari all'87,76%) vivono in condizioni non regolamentari.
2. DATI AGGIUNTIVI DEL 2005
Andando a spulcare la rete si trova qualche altro dato in merito. La situazione è pressoché identica alla precedente, ma voglio aggiungere dei dati significativi riguardanti le celle degli istitui di detenzione italiani:
* non ha doccia l'89,4% dei detenuti;
* non ha acqua calda il 69,31%;
* non ha il bidet il 60% delle detenute;
* il 12,8% dei detenuti vive in celle dove il bagno non è collocato in un vano separato, bensì vicino al letto;
* il 55,6% vive in carceri dove non sono consentiti colloqui in spazi all'aria aperta;
* il 29,3% non può accendere le luci all'interno della propria cella (gli interruttori sono situati all'esterno);
* il 7,69% vive in celle con schermature alle finestre che rendono insufficiente l'illuminazione naturale;
* il 18,4% vive in un ambiente costantemente illuminato;
* il 64,39% è ristretto in carceri dove non esiste la figura del mediatore culturale.
Sono 551 gli educatori, rispetto ai 1.376 previsti, con un rapporto educatore/detenuto pari a 1 a 107. Gli assistenti sociali sono 1.223, rispetto ai 1.630 previsti, con un rapporto 1 a 48. GLi psicologi sono 400, con presenza di poche ore al mese e rapporto di 1 a 148.
Sono 21.422 i figli che hanno un genitore in carcere, e 44 le mamme che hanno con se in istituto il proprio bambino (da 0 a 3 anni, per un totale di 45 bambini), perlopiù sono donne immigrate o tossicodipendenti.
Sono 14.595 i detenuti lavoranti, pari al 24,7%. La maggior pare è alle dipendenze dell'Amministrazione penitenziaria e viene occupata in servizi di istituto, manutenzione di fabbricati, lavorazioni varie e in colonie agricole.
Sono 16.179 i consumatori di sostanze illegali e 1.525 i detenuti affetti da HIV.
In pratica nelle nostre patrie galere non viene rispettato alcun trattato internazionale per i diritti dell'uomo e tutto ciò è considerato tortura dall'ONU (almeno per i paesi "non-Nato").
Ma dopo le patrie galere ci sono altri esempi. Uno di questi? Gli OPG (ospedali psichiatrici giudiziari). Se n'è occupata anche "Presa Diretta" stasera, con un video terrificante fatto dalla commissione inchieste del Senato. Questo il loro responso:
(ASCA) - Roma, 16 mar - Vetri rotti alle finestre coperte con dei pezzi di cartone, un angolo cottura improvvisato vicino a un bagno turco, muri scrostati, lenzuola non sostituite per settimane riposte su letti arrugginiti, sporcizia ovunque e, in alcuni casi, letti di contenzione con un foro nel mezzo per la caduta degli escrementi di internati legati per giorni con delle corde ai quattro lati del materasso. Un ''inferno dei dimenticati'', gli ospedali pschiatrici giudiziari (Opg) italiani. Un viaggio che riporta indietro di 80 anni, ai tempi del Codice Rocco che istitui' i manicomi. Un viaggio intrapreso dalla Commissione d'inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del Servizio Sanitario Nazionale del Senato, presieduta da Ignazio Marino, e riassunto in un video che e' stato presentato oggi e verra' mandato in onda a ''Presa diretta'', in onda domenica sera su Raitre.
''Io vengo da un paese in guerra, ma non capisco la differenza tra la vostra democrazia e la notra. Questi - racconta un internato - sono talebani mascherati, la differenza e' che questi ti uccidono piano piano''.
Dietro ai cancelli dei sei Opg non si trovano solo autori di crimini efferati: c'e' chi si e' vestito da donna ed e' andato davanti a una scuola 25 anni fa, chi nel 1992 ha fatto una rapina da settemila lire in un'edicola fingendo di avere una pistola in tasca, chi ha procurato danni al patrimonio della sua citta' perche' non riceveva cure adeguate alla sua patologia. Molti di loro hanno commesso un reato bagatellare, di quelli punibili con pochi mesi di prigione, come l'ingiuria, senza troppa consapevolezza dei successivi, possibili percorsi. Cosi' si finisce in un Opg e si rischia di non uscire piu': per uno schiaffo si puo' essere condannati a un ergastolo bianco in un ospedale psichiatrico giudiziario dove spesso, rivela l'inchiesta della Commissione, ogni internato ha meno di tre metri quadrati a propria disposizione, in netta violazione di quanto sancito dalla Commissione europea per la prevenzione della tortura.
E ancora
Lerciume, urina, immondizia, letti arrugginiti, fori utilizzati come vasi per escrementi, ratti, stanze da quattro dove si sta in nove, ed ancora torture, farmaci usati come sedativi continui, nessuna terapia. E’ un viaggio nell’orrore. Un vero e proprio “choc” il monitoraggio eseguito dalla Commissione d’inchiesta del Senato sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, negli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Un “Abu Ghraib” d’Italia si può ben definirla che, proprio nell’anniversario dei suoi 150 anni, urla vendetta per quei veri e propri “fantasmi” dimenticati. E domenica andrà in onda il documentario prodotto dalla stessa Commissione a “Presa diretta” su Rai Tre. «Così – denuncia Marino – gli italiani si renderanno conto di questi luoghi dove si è dimenticata del tutto l’umanità». E, a vederlo, questo reportage, si resta a dir poco inorriditi. C’è chi piange in ginocchio gridando «giustizia», chi si aggira in silenzio in stanze incrostate di ruggine, sudiciume ovunque, fori usati come latrine, nessuna terapia. Farmaci che sembrano sepolti solo da polvere; medici, in ciascuna struttura, presenti solo quattro ore a settimana che dovrebbero prendersi cura di 300 persone. E sono proprio loro, gli internati degli Opg, a raccontare il loro degrado. Come se non bastasse, delle 1.535 persone che vi sono recluse, più di 300 sarebbero già «dimissibili», vale a dire dovrebbero uscire da quei nosocomi criminali, ma da anni, di proroga in proroga giudiziaria, continuano ad essere reclusi all’inferno. «L’inferno dei dimenticati» lo definisce Marino.
E la situazione sembra davvero disperata oltre che disarmante.
Gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) sono nati a metà degli anni Settanta in sostituzione dei precedenti manicomi criminali, strutture giudiziarie dipendenti dal Ministero della Giustizia. Sono rimasti esclusi dalla legge Basaglia del 1978 che ha riformato i manicomi e la loro organizzazione è di fatto ferma al codice Rocco del 1930. In Italia ce ne sono sei (a Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Emilia, Aversa, Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere e Napoli-Secondigliano). E’ in questi che, da fine 2010, sono iniziate, grazie all’indagine condotta dalla Commissione, visite a sorpresa, inattese, sempre puntualmente impreviste che non hanno fatto altro che «svelare – spiega il senatore Pd – una situazione inaccettabile, quella che alcuni magistrati hanno definito un “ergastolo bianco”». Oltre che un vero e proprio «schifo», aggiunge Michele Saccomanno (Pdl), «che ci fa vergognare di celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia». Da quando le visite sono state eseguite, molte di quelle persone sono morte a causa delle condizioni disumane in cui versavano. Nel 2008, ad Aversa, arrivò anche una delegazione del Comitato per la prevenzione della tortura della Commissione Europea. E proprio questa descrisse la situazione come «inimmaginabile», dunque passibile di una denuncia proprio per tortura. Del resto, chi ci entra anche per reati risibili, come per quel poveraccio che nel 1992 si è infilato una mano in tasca fingendo di avere una pistola e ha fatto una rapina da 7 mila lire in un’edicola, ancora sta dentro, dopo 20 anni. Si rischia, insomma, di non uscirne più. Il meccanismo che si innesca è, purtroppo, il seguente: chi potrebbe uscire, se non ha una famiglia – e, spesso, non ce l’ha – dovrebbe essere curato dalle Asl sul territorio, come una qualunque persona con malattie mentali. Ma le Asl, a volte non possono, a volte non vogliono offrire “percorsi alternativi” ed allora rinviano tutto al magistrato che non fa altro che firmare proroghe su proroghe. «Uno scandalo» riflette ad alta voce Marino. E’ come se si facesse di tutto per tenerli dentro perché – dicono le Asl – «mancano le risorse». Eppure, riflette Marino, «ora non ci sono davvero più scuse perché dai ministeri Salute e Giustizia è stato preso l’impegno di stanziare 10 milioni di euro per agevolare l’assistenza e garantire appunto le cure di chi ne ha bisogno». Del resto, alla denuncia, promette ancora il senatore Pd, seguiranno i fatti.
La Commissione è già intenzionata a chiudere tre strutture su sei e arrivare, al più presto, all’individuazione di nuove strutture a custodia cosiddetta «attenuata» per il trattamento sanitario dei reclusi. Gli ultimi fatti di cronaca che hanno coinvolto alcune di queste realtà – come per l’Opg di Montelupo Fiorentino, dove un uomo è morto per aver inalato del gas, o, ancora, ad Aversa, dove due agenti della polizia penitenziaria sono stati arrestati con l’accusa di aver abusato di un transessuale – «rendono indispensabile un’azione urgentissima dove – afferma un altro senatore Pd – è assolutamente necessario che l’aspetto sanitario prevalga su quello carcerario». Ma, soprattutto – conclude Marino – «si renda alle persone la loro dignità e al nostro Paese l’integrità di una nazione che porta rispetto nei confronti di tutti i suoi cittadini». Questi lager vanno chiusi.
Ma come? Persino il democratico e solitamente pacato Marino parla di "lager" ? Ma questo non era uno Stato civile, occidentale e democratico?
E dulcis in fundo quelli meno conosciuti, a proposito di lager appunto. Si chiamano CIE (centri di identificazione ed espulsione), magari nemmeno li conoscete perchè non riguarda noi/voi, non ci finiremo mai. Riguarda quegli immigrati che sbarcano e non hanno permesso di soggiorno. Quindi cornuti e mazziati, perchè non solo non hanno commesso reato (in un paese normale funzionerebbe così, o forse in un "sistema normale") ma vengono carcerati come se l'avessero fatto.
13 ottobre 2009
Siamo entrati in un Centro di Identificazione ed espulsione: uno di quei non luoghi di cemento e dolore inventati da Shenghen dove c’è chi se ne sta rinchiuso, come in una prigione, ad espiare un grave peccato: quello di essere un extracomunitario
Il CIE di Ponte Galeria è recentemente tornato al centro delle cronache. Poche settimane fa, un assalto con barattoli di vernice, non rivendicato da alcuna sigla, ha colpito la sede centrale della Croce Rossa di Roma. Secondo il volantino di rivendicazione, gli operatori della CRI sarebbero presunti complici delle torture che quotidianamente subiscono i clandestini detenuti all’interno del Centro di Identificazione ed Espulsione di CIE_1Ponte Galeria. Anche Repubblica ha scritto in proposito la scorsa settimana: per il prefetto di Roma il centro deve essere ristrutturato e sarebbe meglio chiuderlo. I problemi sono molteplici: spaziano dal sovraffollamento della struttura alle carenze igienico-sanitarie. A seconda della persona con cui parli i giudizi sul CIE si dividono: è un albergo a quattro stelle, dicono alcuni, è un lager, ribattono altri. Giornalettismo è andato a vedere.
NON LUOGHI- Prima di arrivare qui parlo con un amico, un poliziotto. In passato ha prestato servizio al Cie e in altri centri simili sparsi sul territorio italiano. “Andare lì solo per un giorno non ha senso”, dice. “Non riesci a capire le dinamiche interne, dovresti passarci almeno venti giorni e allora capiresti come funzionano davvero le cose”, ammonisce. Sarebbe impossibile anche solo ipotizzare una cosa del genere, per cui vado, cercando di liberarmi di quanti più pregiudizi possibili. Marc Augé, etnologo e antropologo francese, ha coniato il termine nonluoghi per identificare spazi che sono: “in contrapposizione ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici”. Aeroporti, autostrade, stazioni, centri commerciali eccetera sono tanti non luoghi inseriti nei contesti cittadini: non hanno alcuna identità, non hanno nessun legame con il territorio: potrebbero sorgere qui o altrove e non vi sarebbe nessuna differenza. Le persone vi passano, non vi risiedono, non li vivono, non li costruiscono quotidianamente. Il luogo dove si erge il Cie è tutto un nonluogo.
ANDIAMO – La macchina scivola via nelle grandi strade che ruotano intorno alla Nuova Fiera di Roma. Accanto c’è Commercity, uno dei mercati all’ingrosso più grande d’Italia, e poco più in là sorge Parco Leonardo, l’ennesimo tempio dello shopping capitolino. Fuori l’entrata della Fiera le persone iniziano ad accalcarsi: dentro c’è l’Enada, la mostra internazionale degli apparecchi da gioco, e alle dieci iniziano ad affluire i primi visitatori. Basta fare un centinaio di metri e svoltare per una piccola strada laterale per trovarsi accanto il Cie. Immagino che nessuna delle migliaia di persone che ogni anno passano per la Fiera di Roma o per andare a Commercity se ne sia mai accorta. All’entrata dell’hotel a cinque stelle di cui molti dicono non c’è traccia. Le recinzioni esterne sono come quelle di una caserma. La seconda cerchia di sbarre con la camionetta dell’esercito che ne controlla il perimetro, non fanno altro che confermare la sensazione iniziale una volta superati i cancelli.
DENTRO – All’interno oltre alla Croce Rossa, che controlla e dirige il centro, ci sono uomini di tutte le forze di polizia: carabinieri, poliziotti, guardia di finanza, esercito. Dalle facce mi sembra di notare anche uomini della Digos, ma è solo una supposizione. Gli immigrati non si vedono. Il centro, infatti, è diviso a zone. Da una parte, dove si trovano le forze di polizia, ci sono gli uffici amministrativi: qui ci sono gli spazi per effettuare le udienze, si svolgono le visite con i parenti, c’è l’ufficio immigrazione e lavorano le associazioni che prestano assistenza agli immigrati. Qui tutto è simile a qualsiasi struttura pubblica italiana: i colori delle vernici, le mattonelle, l’aria un po’ vetusta anche se tutto è nuovo è la stessa che si respira nei comuni, nelle Asl e nei palazzi pubblici in genere. Superata questa zona si entra negli spazi dove sono gli immigrati, gli “osCIE_2piti” come vengono da tutti chiamati. In quest’area, a meno che non nascano problemi di ordine pubblico, le forze di polizia non hanno accesso. Sono gli operatori della Croce Rossa possono lavorare in questa zona ed entrare in contatto con gli “ospiti”. Qui ci sono le mense, l’ambulatorio, con in servizio un medico e un infermiere 24 h su 24, il gabinetto odontoiatrico, ora in ristrutturazione, gli uffici della Cri e poi dietro, in un’altra zona ancora, i dormitori con i campi di calcetto, basket e pallavolo.
UTILI IDIOTI – Il compito primario della Croce Rossa è uno: garantire l’assistenza agli immigrati. Ed è un compito che viene pagato: lo Stato versa alla Croce rossa 47 euro al giorno per ognuno di loro. Il Cie di Ponte Galeria ha una capienza massima di 364 persone e oggi ce ne sono 306: 154 donne e 152 uomini. Quando un immigrato viene portato qui la prima cosa che viene valutata è se sia idoneo o meno a fare vita comunitaria. E’ una decisione insindacabile che viene presa in autonomia dagli uomini della Croce Rossa. Non è, infatti, che stiano tutti bene gli ospiti: malattie croniche da fumo e storie di tossicodipenza e tossicofilia sono piuttosto comuni fra gli uomini; le donne hanno molti più problemi legati invece alle malattie sessualmente trasmissibili: la maggior parte di loro proviene dalla strada e le terapie da somministrare sono molto diverse. “Ci hanno definito degli utili idioti” raconta Gianluca Enzoli, medico, qui con il ruolo di coordinatore sanitario. Il riferimento è ai vari movimenti di contestazione che da sempre criticano l’esistenza di Centri come questi. “Preferisco sentirmi un’idiota”, prosegue, “ma essere utile, piuttosto che il contrario. Questi centri non li abbiamo voluti noi, qui siamo impegnati a fare quello che da sempre fa la Croce Rossa: prestare assistenza a chi ne ha bisogno”. Di fatto, non gli si può dare torto. I centri di permanenza temporanea, ora Cie, nomi diversi per l’identica cosa, sono figli della Turco-Napolitano, figlia (indiretta) a sua volta degli accordi di Schengen. La Fortezza Europa ha liberato le frontiere per i suoi cittadini, liberi di attraversare i suoi confini con facilità, ma ha ristretto l’accesso agli altri, gli extracomunitari. Così sono sorti i Centri.
DALLA PRIGIONE AL CIE – Questo, oramai al dodicesimo anno di esistenza, è sempre stato un po’ particolare. Pensi Cie, o Cpt, e immediatamente ti salgono alla mente le immagini di disperati che sbarcano dalle navi a Lampedusa e ti ricordi dello stupendo reportage di Fabrizio Gatti, che lì si fece imprigionare per documentare le violenze quotidiane che subivano gli “ospiti”. Qui di questo non c’è traccia, almeno così appare. I rapporti con gli operatori della CRI sono ottimi, o almeno buoni. Dei torturatori che compiono stupri e sevizie, come raccontava il volantino, nemmeno l’ombra. Gli immigrati che ci sono provengano dal carcere e dalla strada. O sono stati “presi” durante i controlli, CIE_3oppure sono stati portati direttamente qui dopo aver trascorso un periodo in prigione. Di quest’ultima affermazione chiediamo lumi e a spiegarci questo apparente paradosso è l’addetto all’Ufficio immigrazione. “La maggior parte degli ospiti uomini che è qui ha una fedina penale lunghissima”, racconta. “E’ che vengono arrestati e condannati ma, per assurdo, non vengono identificati in carcere. Lì non vogliono fornire i documenti, non dichiarano le proprie generalità e così, una volta scontata la pena, vengono portati qui”. Diventa così compito loro procedere alla loro identificazione e rispedirli nei paesi d’origine. Questo anche nel caso sia cittadini comunitari, come ad esempio i romeni: l’arresto e la condanna fanno decadere i diritti di soggiorno.
INDETERMINATEZZA – Le nuove norme contenute sul pacchetto sicurezza hanno avuto anch’esse un effetto paradossale. L’allungamento dei tempi massimi di permanenza nei Cie è passato dai 60 giorni ai 180. “Adesso”, prosegue l’addetto all’immigrazione, “è più facile che gli immigrati collaborino e forniscano i documenti: di fronte alla possibilità di restare qui 180 giorni sono diventati molto più collaborativi”. Problemi, non pochi, ci sono con consolati di molti Paesi che non aiutano le forze di polizia nell’identificazione degli stranieri. Così diventa impossibile accompagnare l’extracomunitario a casa e si lascia andar vai con il foglio di via. Il male peggiore per gli ospiti non è un mistero per nessuno: l’indeterminatezza. Direttore, coordinatore sanitario, semplici operatori e personale delle forze di polizia sono concordi nell’affermare che è l’indeterminatezza, l’incertezza di sapere per quanto tempo si dovrà restare qui dentro, cosa accadrà in seguito, sono cose che distruggono l’umore degli clandestini. Non a caso la richiesta di benzodiazepine è molto alta, anche se non vengono assolutamente prescritte se non dietro una richiesta medica specialistica. L’immagine che fanno salire alla mente, raccontando ciò, è quella dell’inferno dantesco: gli ignavi costretti a vagare in attesa di un perdono che non potrà mai avvenire. La differenza è che qui, prima o poi, il perdono, nascosto sotto la forma della libertà, arriverà.
VERTIGINI – “Fino a qui tutto bene”, dice Hubert nel film L’odio, “il problema non è nella caduta, ma nell’atterraggio”. E l’atterraggio arriva varcando la soglia che divide questo spazio dove opera la CRI dai dormitori. La prima gabbia si apre e lo spettacolo che appare è raccapricciante: Recinzioni di ferro alte tre metri costeggiano ogni singola stanza dove dormono sei persone. Un cancello, chiuso sola la notte, è l’unica apertura fra loro. Un lungo corridoio, anch’esso ricoperto di sbarre, porta fino ai campi in cemento. La razionalità, in un attimo, lascia il posto alle emozioni. Rapide, velocissime, si fanno avanti le vertigini, il senso d’oppressione, il disagio. Se questo è un albergo a quattro stelle, quelli a una cosa sono? E’ una prigione, né più, né meno. Ma c’è una grande differenza: gli ospiti non hanno commesso nessun reato. Nel reparto uomini 90 detenuti su 100 provengono dal carcere e hanno pagato il loro debito con la giustizia e tenerli ancora chiusi qui sembra non aver alcun senso. E poi ci sono gli altri dieci, sorpresi magari per strada, a lavorare in un cantiere, senza permesso di soggiorno e portati qua. E allora diventa ancora più difficile capire, giustificare. E poi, ancora, come se non bastasse, ci sono loro, le donne, e allora cade anche l’ultimo tentativo di trovare un senso. Sì, perché loro, 70 su 100 sono prostitute: fermate per strada e trasferite al Cie. Rumene, cinesi, nigeriane, serbe, croate e di infinite altre nazionalità. Le vedi e sai quello che hanno passato. Lo sai perché ne hai letto, hai parlato con chi cercato di portarle via dalla strada, hai sentito i loro racconti con le tue orecchie:CIE_4 tutte, o quasi, avranno un passato di violenza alle spalle. Le nigeriane con i loro riti voodoo dietro, le continue minacce, gli abusi, le violenze. Le rumene costrette finite qui con promesse false, illuse, stuprate, vendute. Così le altre. Le vedi e non puoi fare finta di non sapere: sono donne che hanno sofferto e vissuto cose indicibili e ora sono qui, rinchiuse. Con l’unica colpa, dato che la prostituzione non è un reato, di non far parte di Schengen, del mondo occidentale, di casa nostra. Per loro qui ci sono due associazioni che vengono una volta alla settimana. Si occupano della tratta delle donne e di offrire un’alternativa alla strada a chi davvero lo vuole. Non devono essere poi tantissime quelle che accettano visto che, come raccontano, alcune di loro è l’ennesima volta che tornano qui.
ARIA – All’uscita dal Cie mi riconsegnano la mia carta d’identità. Non è solo il riappropriarsi di un documento. Questo semplice gesto è la riaffermazione del mio status, della mia identità, dei miei diritti. Anche il Cie è infatti un non luogo: senza alcun legame con il territorio, senza identità, senza persone che costruiscano fra loro relazioni capaci di modificarne la sostanza. Tutta quest’area con Roma non ha alcuna somiglianza, nessun rapporto. In macchina continuo a pensare a quello che ho visto. Salgono alla mente le sensazioni suscitate dalle parole di Foucalt in Sorvegliare e punire quando afferma che la punizione più atroce per un uomo che ha commesso un delitto sia quella di privarlo della propria libertà. E loro, penso, un delitto non lo hanno nemmeno commesso.
E direi di aver finito: in tre casi violiamo clamorosamente qualsiasi convenzione per i diritti dell'uomo, nel caso degli OPG e delle Carceri siamo stati condannati e l'ue ha parlato di torture.
Viva l'Italia, esportiamo la democrazia e la civiltà in Libia, Iraq, Afghanistan e dove ci pare. Ne siamo in grado.
