credo che dare una lettura sia interessante, per questo lo pubblico pure qui. se più tardi o nei prossimi giorni avrò il tempo di entrare seriamente nel merito lo farò senz'altro, ma in questo periodo spesso sono di corsa ed ho poco tempo.
Spoiler:
Torno su queste pagine dopo una marcata assenza e per farmi perdonare oggi vi propongo un articolo complesso, tecnico, spero istruente.
Le premesse: lavoro con il wrestling da 16 anni e lo guardo da almeno 34. Possiedo una biblioteca tra libri, riviste e reperti cartacei di oltre 5000 pezzi, alcuni dei quali anche rari. Ritengo con poca umiltà di incarnare il più vasto e completo background di matrice giornalistica tra chi in Italia tratta della disciplina (ne ho commentato circa 8000 ore)! Tenetelo presente quando mi addentrerò in analisi e dati perché nulla nasce da invenzioni o supposizioni. Non firmo delle ipotesi e quando accade lo dichiaro in modo esplicito.
La richiesta: leggete con mente aperta. Fatevi domande. Indagate. Mettete per cortesia in discussione quello in cui credete.
Si comincia.
Cosa è il wrestling?
I padri sono tanti. La glima normanna, il pancrazio pesante ellenico, le codificazioni d’esibizione egiziane, gli stili di ingaggio fisico medioevali, le guerre interne americane. Noi però saltiamo a piè pari l’epoca antica (potete approfondire se vi va, ci sono numerose pubblicazioni a tema) e ci spostiamo ad inizio 1900 quando il wrestling è sostanzialmente il più vicino parente di ciò che è oggi: una truffa.
I filoni sono due. Il primo: gli spettacoli itineranti circensi che propongono sfide col campione del tendone e attraverso un’abile gioco persuasivo inducono gli spettatori a puntare denaro sullo sfidante del luogo (che scende in campo attratto dalla possibilità di guadagnare del denaro qualora resista per un lasso di tempo stabilito senza essere battuto), immancabilmente sconfitto dal professionista di turno.
Il secondo: quello più propriamente sportivo che parte come reale contest fisico e tecnico ma si tramuta rapidamente in uno show dagli esiti predeterminati innanzitutto per permettere a organizzatori e atleti di introitare manipolando i risultati per spremere il massimo dalle scommesse clandestine.
Ma poi qualcosa nel gioco si rompe. I fan iniziano a disertare le arene. I match sono lunghi, noiosi, statici, troppo tecnici. Alcuni impresari geniali si accorgono che devono movimentare lo stagno: si inventano scambi coreografati, le sfide di coppia, le personalità strabordanti da abbinare ai wrestler e un calendario di rivalità (i cosiddetti feud) attraverso il quale raccontare storie in continuità narrativa.
Ho spremuto in poche righe (mi si perdonerà la sintesi) un cambiamento epocale e un fatto storico spesso dimenticato: per diventare quello che conosciamo oggi, ovvero uno spettacolo, il wrestling americano decide di mettere in secondo piano la tecnica combattiva innalzando a primario talento da coltivare la capacità di creare coinvolgimento emotivo, corrispondenza e vicinanza con un pubblico da fidelizzare con strategie miste desunte dalla letteratura, dalla mitologia e dal teatro. Il procedimento non è uguale e radicale in ogni Stato a stelle e strisce ma le capitali della lotta, da New York a Washington, da Boston a Philadelphia, ricadono in questo cliché. Si discostano alcune zone della costa Ovest e le grandi città centrali come St Louis, spesso per esigenza specifica vantando campioni (Thesz, Gagne) particolarmente abili nel comparto amatoriale.
Il personaggio chiave della proposta WWE
Da allora, salvo rarissimi casi, l’uomo di punta della WWE dalle incarnazioni primitive sino all’attuale è un face (un buono) che deve impostare il match in maniera schematica e ripetitiva e cioè: prenderle di brutto, apparentemente soccombere dinnanzi alle scorrettezze dell’heel (il cattivo) e poi improvvisamente resuscitare come Lazzaro e chiudere con autorità.
Il tutto seguendo un ulteriore mantra: work hard but work smart ovvero lavora duro ma con intelligenza, usa uno stile da peso massimo (anche se non lo sei) e pensa alla tua longevità.
Esempi ne abbiamo? Certo e in abbondanza: Bruno Sammartino. Il mancino Pedro Morales. Bob Backlund. Hulk Hogan. The Ultimate Warrior. Randy Savage. Steve Austin. The Rock. Triple H. John Cena.
La loro aderenza allo stampo è totale e si va da Warrior che resiste a cinque flying elbowsmash consecutivi di Savage (ai tempi la sua infallibile mossa finale!) a Shawn Michaels che con addosso 85 kili circa sembra fatto di gomma e si rialza anche contro ogni logica apparente. Paradossalmente anche il primo Undertaker potrebbe essere associato al gruppo e lo stesso dicasi per Bret Hart che comunque dopo lunghe fasi d’incasso chiudeva col giro delle sue cinque mosse del destino.
(ammetto di non avere ancora un convincimento definito sul solo Eddie Guerrero).
Le eccezioni? Poche e a volte opinabili o argomentabili. Come i super-muscolosi Batista e Brock Lesnar che chiaramente per fisico e stazza non possono che essere i predatori. O i vari Randy Orton, Edge, CM Punk e Seth Rollins che però sono campioni malvagi nella narrativa della compagnia e dunque chiamati ad un altro tipo di lavoro.
Manca qualcuno? Beh sì, Daniel Bryan. L’ho tenuto per ultimo perché la sua consacrazione è in pieno archetipo WWE. Prima infatti batte Triple H che per vendetta lo infortuna. Lui però torna nel ring per il main event con Batista e Randy Orton, incassa di tutto, finisce in barella ma, rifiutando le cure mediche, arremba il quadrato e fa suo il titolo con cuore e tenacia. Vi sembra un copione differente dagli altri?
No, perché non lo è.
Sin qui abbiamo però assodato due cose incontestabili:
1) per diventare nazionale il wrestling americano ha storicamente rinunciato alla tecnica per favorire lo spettacolo e la WWE più di qualunque altra sigla ha fatto sua questa strada.
2) il personaggio chiave del wrestling WWE è un eroe che deve fronteggiare difficoltà estreme, arrivare quanto più vicino al baratro e poi recuperare in maniera sovrumana.
La finalità della WWE e la sindrome del salgo in cattedra
Ma quale è la finalità della WWE? Perché dovremmo guardarla e investirci del tempo?
Ce lo dice la stessa federazione addirittura inserendolo nel suo nome: per l’intrattenimento (la E di entertainment). E cosa significa questa parola?
Da vocabolario Treccani: “l’intrattenere piacevolmente. In senso più concreto: passatempo, divertimento”.
O, se preferite, Leopardi: “arti che servono alla giocondità della vita inutile”.
La definizione è molto chiara. Non è un mantra o una religione, è qualcosa che deve alleggerire il male di vivere, emozionare, coinvolgere, stupire. Come un film, un fumetto, un musical, un libro. Ma a base sportiva e con una proposta narrativa differente, specifica e unica.
E come possiamo onorare questa finalità? Semplice, guardando gli show con gli occhi del bambino, sospendendo la nostra incredulità e adeguandoci a prescindere a un compromesso banale condensato in: “so che è un mondo di fantasia, so che non tutto sarà logico ma ne sono consapevole, lo accetto, stacco la spina del cervello, isolo il grillo parlante della ragione ed entro in questa realtà tanto distorta quanto affascinante”.
Ogni volta che accendete la Tv o partecipate ad uno show live il contratto che firmate con la WWE è proprio questo, che ve ne rendiate conto o meno. Chiedete di ricevere intrattenimento accettando le leggi e le regole della federazione. E aggiungo: siete voi che entrate nel suo universo, non il suo universo che entra in voi.
Eppure con l’avvento di Internet e tutto il connesso (siti, newsletter, notizie, rumors) questo patto d’acciaio ha iniziato ad arrugginirsi. Una fetta di fan (che da documenti riservati di marketing che ho potuto visionare è quantificabile attorno al 12% degli interessati al prodotto WWE, arrotondati per eccesso) ha deciso per vari motivi di dissociarsi dal concordato, disarcionando l’intrattenimento dal ruolo chiave dell’intesa per sostituirlo con i termini “talento, mosse, merito, raccomandazione”.
Il risultato? Che non stai più assistendo allo show per quello che è e che si propone di essere ma lo fai per ergerti su un piedistallo ponendo te stesso al centro dell’attenzione. E con il tempo ti tramuti da fan del wrestling WWE a fan della tua personale idea del wrestling WWE che ovviamente non è quella proposta in Tv con la conseguenza che sarai sempre insoddisfatto dal prodotto a meno che non si realizzi in toto o in parte il personale disegno partorito dalle tue aspettative (sempre che nel frattempo non siano mutate).
*** non travisate, 12% non significa che in una pagina FaceBook o in un sito di settore troverete quella percentuale di “dissidenti” e l’88% di “allineati”. La maggioranza bulgara della prima percentuale è invece quasi totalmente dislocata sui mezzi social e web dove rafforza le sue convinzioni su un principio di consociativismo di reggenza.
Piccola parentesi: lo strano caso del New Day
“Patetici”.
“Sono dei pagliacci”
“Anonimi e titolo immeritato, credo che i bookers si facciano di roba buona”
“L’unica reazione che mi suscitano è quella di alzarmi e andare a fare altro”
“Nel ring non sanno fare un c….”
“Kofi per me non serve più in WWE, ci sono lottatori più giovani e migliori di lui”
“La peggiore stable di sempre”
“Siamo alla frutta, adesso vince chi è più pirla”
“Ogni volta che la WWE ci fa pensare a un rilancio della categoria tag team poi fa queste cazzate”
“Sono meno di zero”
“Spero li licenzino presto tutti e tre”
“Abbiamo toccato il fondo”
Questi qui sopra sono alcuni commenti esemplificativi di come il New Day fosse percepito dall’utenza della mia fanpage FaceBook ad aprile 2015 (e più in generale in tutto il web). Non ho tagliato quelli positivi per vetrinare solo il negativo. Il 95% dei lasciti nel cyberspazio ad imperitura memoria risuonava con questo tenore. E né si tratta di opinioni legate all’essenza allora malvagia (heel) dei tre componenti dell’alleanza. No no, qui li si voleva proprio fuori dalla WWE perché giudicati inutili, scarsi, vergognosi e indegni.
Andiamo però avanti di un anno e il New Day è la fazione più popolare della compagnia tanto che a WrestleMania il suo merchandising è il top seller assoluto con i fan adulti e iper-critici che hanno improvvisamente virato, cambiato rotta e ora fanno man bassa di t-shirt e unicorni fluorescenti.
In 12 mesi cosa è cambiato in Big E, Xavier Woods e Kofi Kingston?
Il talento è bene o male sempre quello.
Il parco mosse mostrato nel ring non ha goduto di sensibili differenze.
Il merito precedentemente acquisito con la gavetta altrove è per forza di cose immutabile.
E di raccomandazioni possibili nemmeno l’ombra.
E allora perché questo mutamento?
Perché il fan cronicamente insoddisfatto è volubile ed è pronto a rivedere le sue apparentemente inossidabili norme se qualcosa improvvisamente va di moda e sei “out” se non sali sul carro dei vincitori. In fondo è un metodo comportamentale ampiamente trattato dalle discipline umanistiche e scientifiche.
Il New Day è “andato over” (diventato straordinariamente popolare) grazie allo spettatore occasionale (che poi è la fetta più grande di chi guarda in USA la WWE) e contro ogni pronostico iniziale puntando proprio sulla commedia dell’assurdo e sulla grande “E” di intrattenimento. Dunque rispettando il patto compagnia/fruitore di cui vi ho scritto nel paragrafo precedente. Niente manovre aumentate o gavetta in qualche oscuro buco dimenticato dal mondo.
Però la storia è cool, ci si può abbinare una mitologia personale del “io sapevo che finiva così” e allora tutti a bordo a inneggiare al cereale culone!
Non leggerete più in giro “Nel ring non sanno fare niente” come accade per Roman Reigns anche perché in quel caso si verrebbe divorati da una massa soverchiante (in fondo conta più il numero che la qualità delle tesi) e si cadrebbe dal piedistallo del dottorato in WWE sul quale ci si immagina di stare.
Cosa è un match?
Prima di utilizzare la cassetta della conoscenza per smontare il modo malato col quale la minoranza oggetto dell’editoriale (da qui la chiamerò “i ribelli” che come nome fa anche figo e non è spregiativo) vorrebbe che anche voi guardaste la WWE è bene chiarire cosa è un match all’interno della proposta della lega.
Che si tratti di un combattimento tra singoli o fazioni è facile arrivarci. Ma focalizziamoci sulle due fasi principali, quella passiva e quella attiva:
--- fase passiva: è il motivo del contendere. Può essere drammatico (la custodia di un figlio), competitivo (il voler diventare campione), caciarone (io ballo meglio di te), personale (un’amicizia che si rompe), patriottico (difendo la mia nazione dagli invasori incivili) e così via. Quello che sta a monte, il perché si entra nel ring e con quale scopo si chiama storyline e non ricade nella sfera di controllo degli atleti. Ci sono sceneggiatori e dirigenti specifici che se ne fanno carico.
--- la fase attiva: è quanto raccontato nel quadrato dai wrestler coinvolti. Si chiama storytelling e prevede numerose possibilità come il lavorare ad una parte del corpo del nemico, l’utilizzo di certe scorrettezze o scorciatoie, il gestire l’hot tag in una battaglia a squadre… Questa fase è concordata all’unisono dagli atleti con la supervisione di un veterano (road agent) e dell’arbitro.
*** lo storytelling non si lega solo alle strategie o alle mosse. E’ anche tempi di reazione, espressioni facciali, interpretazioni del dolore e della fatica e molte altre sfaccettature parimenti importanti.
Storyline e storytelling hanno un minimo comune denominatore: essere al servizio dell’intrattenimento del fan. Un program perfetto parte da una storyline avvincente (ad esempio il grande sogno di Daniel Bryan in rappresentanza dell’uomo comune che è osteggiato dall’Authority che vede in lui un atleta non degno di essere campione) e si concretizza in una sfida dallo storytelling emozionante (il modo con cui Daniel corona l’inseguimento al titolo a WrestleMania). Con una aggiunta che ci riporta al punto che in precedenza avevo contrassegnato col numero 2 dopo una incontrovertibile analisi storica e cioè che:
“il personaggio chiave del wrestling WWE è un eroe che deve fronteggiare difficoltà estreme, arrivare quanto più vicino al baratro e poi recuperare in maniera sovrumana”.
Le mosse
“Roman Reigns è scarso, fa solo tre mosse”
Chi scrive frasi simili a quella sopra riportata per me è ignorante. Nel senso che ignora cosa sta guardando (anche se ne vuole magari parlare da esperto) e se continua a farlo pur esprimendo concetti come questo se poi lo show non gli piace il problema è suo e non del programma in sé.
Dovrebbe farsi un coro contro, contestare se stesso per la pessima scelta e riflettere su come sia meglio investire le ore della propria vita.
Il tutto nasce da un approccio sbagliato al wrestling WWE ovvero che le mosse siano la parte centrale di quello che ti viene proposto e più sembra che tu esegua tecniche offensive più sei abile e preparato e di conseguenza meritevole di stare al top.
La realtà è invece un’altra. Al centro della proposta WWE ci sta l’intrattenimento e le emozioni ad esso connesse. Le mosse sono un mezzo per arrivare al traguardo. Non il traguardo.
*** è un dato di fatto che i più leggendari campioni WWE passati alla storia ed inseriti nella Hall of Fame adottassero un numero di mosse minimali nei loro match
Peraltro l’incapacità di comprendere tecnicamente il wrestling è palese se si considera che ogni manovra è concordata e non sarebbe possibile senza la collaborazione tra gli atleti. Così se uno dinamico salta, corre e si tuffa ne serve un altro grosso che è al posto giusto al momento giusto, che bilancia i pesi e attenua con la sua massa la caduta.
E’ l’a-b-c di ogni percorso di allenamento volto a diventare un wrestler professionista: si balla in due, nessuno entra nel quadrato e “trascina” l’altro a un bel match. Il merito o il demerito finale è sempre split, metà e metà. Chiedete a chi pratica.
Ne consegue che se AJ Styles (che fonda il suo stile sulla destrezza e la rapidità e pesa 90 kg circa) combatte contro Roman Reigns (che invece si basa sulle tecniche di potenza pesando 125 kg) le tante mosse del primo e le poche del secondo sono tutte merito condiviso di entrambi che tengono fede alla stazza donata loro da madre natura e uniscono gli sforzi per arrivare in fondo (il risultato finale e l’intrattenimento dei fan).
Conviene ribadirlo: merito condiviso.
Sostenere che Styles ha fatto il 90% del match e Reigns il 10%... beh, vi fa cadere nell’ambito dell’ignoranza di inizio paragrafo.
Questo è quello che è. Il “ribelle” invece inquina uno dei fondamentali basilari della disciplina con una teoria spuria assolutamente improponibile ovvero che conta solo quanta roba d’attacco fai, dimenticandosi proprio del concetto capitale di cooperazione e mutualità tra i wrestler.
Ma ragioniamo per assurdo tenendo l’esempio proposto: Reigns decide di mostrare di più. Aggiunge backbreaker, powerslam, powerbomb, sidewalk slam e belly-to-belly suplex. Tutte tecniche di cui conosce i segreti ma alle quali non fa ricorso perché non utili allo storytelling dei suoi match (che, essendo lui il face di punta WWE, devono entrare nell’epica ricorrente evidenziata precedentemente col numero 2).
Orbene, significa che qualcuno deve subirle. Ecco, ora mettetevi nei panni di uno che pesa 30/35 kg in meno come AJ Styles o Sami Zayn. E pensate a quanto vengano ridotte efficienza fisica e longevità di questi ultimi giacché si tratta di schianti accompagnati con addosso una massa ben più grossa della loro (in una compagnia in cui arrivi anche ai 200 match all’anno).
Capite dove voglio arrivare? Pretendere varietà dai giganti significa condannare quelli più piccoli che dovrebbero proporre lo stesso i loro cavalli di battaglia (in sé una impresa aerobica demandante) e al contempo subire pesanti cadute continue. Una follia!
Mettiamo però da parte questi discorsi perché devono passare dei concetti forti e chiari e cioè che:
3) Lo scopo di un match WWE è quello di intrattenerti sfruttando storyline e storytelling, usando al meglio le capacità e i fisici specifici delle sue superstar.
4) Nessun wrestler combatte da solo. Tutte le mosse che esegue sono per metà frutto del lavoro e della collaborazione dell’avversario. Ogni merito a fine battaglia in questo comparto è totalmente condiviso.
5) visto il punto 4, non esiste alcuna meritocrazia supplementare da attribuire a chi in un match appare più mobile o offensivo (di solito il face e/o il più piccolo in presenza di differenza di stazza).
La raccomandazione
Vorrei chiarire che l’editoriale non vuole essere un elogio sfrenato di Roman Reigns, tuttavia il wrestler sarà spesso citato perché attuale pietra di paragone ideale per evidenziare le distonie dei “ribelli” che lo hanno eletto a loro nemico pubblico numero uno. Più avanti affronteremo comunque anche il giusto diritto di critica perché quest’ultimo non deve di certo andare perso e chiaramente al mirino non sfuggirà nemmeno l’attuale campione dei pesi massimi WWE.
Un altro dei punti di snodo è: “tal dei tali ricopre quel posto perché è raccomandato” con obiettivi recenti lo stesso Roman Reigns e Charlotte Flair.
Nel affermare ciò probabilmente si ha in mente un modello molto latino di assegnazione di posti, ruoli e mestieri che sovente avviene non col metro della competenza ma con quello della parentela.
Per Reigns la deduzione nasce in quanto cugino di The Rock e dunque sicuramente spinto e sponsorizzato da quest’ultimo.
Ora, dopo avervi spiegato che il match si fa sempre in due e servono necessariamente forti competenze da parte di tutti i coinvolti (soprattutto per reggere ad alto livello ai ritmi lavorativi WWE), secondo voi una compagnia quotata in borsa e a conduzione amministrativa evidente (i McMahon) rischia il suo futuro e milioni di dollari oltre alla sua reputazione in base a una raccomandazione?
La cosa appare stupida e ridicola solo a leggerla eppure in tanti vogliono crederci per avere qualcosa a cui aggrapparsi e giustificare il proprio modo distorto di guardare gli show della federazione.
Ma poniamo che The Rock abbia davvero questa mostruosa influenza tanto da poter decidere da esterno chi sale al top della compagnia, sostanzialmente ignorando ogni regola societaria americana e internazionale.
Beh, allora perché CM Punk ha regnato per 434 giorni quando lo poteva fare un suo altro cugino entrando così nella storia? Chessò, magari Deuce (del team Deuce & Domino, ve li ricordate)? O Umaga?
In fondo non serve altro, basta la parola di The Rock a garanzia, dunque…
E perché sua cugina Tamina non ha mai vinto il poco prestigioso titolo delle Divas? In fondo The Rock scrive spesso di lei sui social, le ha regalato un’auto, sono legatissimi e le ha permesso di trovare qualche piccola parte cinematografica.
Misteri!
Qualcuno su FaceBook ha avuto il coraggio di scrivermi: “perché le altre volte qualche collaboratore di Vince McMahon gli avrà fatto capire che era meglio non assecondarlo mentre stavolta non l’hanno fatto ragionare”.
Vi rendete conto?
La verità è che i figli dei lottatori e coloro che provengono da alcuni particolari clan fruiscono invero di grosse facilitazioni nell’aprirsi porte prioritarie verso il radar della WWE. E’ normale. Così gira il mondo. Hai papà che ti insegna la disciplina, la vivi sin da ragazzo, magari un tuo zio possiede un ring nel giardino o una palestra specifica di formazione che puoi frequentare senza sbattimenti.
Ma poi il resto sta tutto a te, al tuo impegno, alle tue gambe. E ci vuole sempre pure un pizzico di fortuna.
La storia della WWE è costellata di figli e/o parenti di wrestler che non hanno trovato fama assoluta. L’ultimo è Cody Rhodes che se ne è andato quando ha capito che non avrebbero mai puntato con forza su di lui. Ma a cadere dalla scala che porta al paradiso della gloria sono stati anche la figlia di Eddie Guerrero, il figlio di “British Bulldog” Davey Boy Smith, Camacho (figlio di Haku), Ted DiBiase jr e via dicendo. La lista è lunga.
Quando WWE lancia una star nell’olimpo, che sia Reigns o Shawn Michaels o Bret Hart o Kurt Angle lo fa seguendo una sua visione, un suo piano strategico, sue rilevazioni di mercato.
O credete che si entri in una sala riunioni e Vince McMahon arbitrariamente dica: “dai, facciamo così perché lo dico io”?
Beh, questa è una rappresentazione bambinesca di una società con ramificazioni mondiali, uffici praticamente in ogni continente e specializzata a “fiutare il mercato” per capire dove tira il vento. Se credete che accada davvero questo, intellettualmente parlando non avete più di 6 anni.
Dunque anche stavolta traiamo importanti insegnamenti e cioè:
6) l’aver avuto un parente che ha praticato wrestling non significa che sfonderai automaticamente in WWE. Hai dei vantaggi nel farti vedere dai suoi talent scout. E basta.
7) pensare che una compagnia leader mondiale come WWE decida che un atleta diventerà campione in base alle sue parentele è una fesseria.
Il merito
“Roman Reigns non merita di essere campione. In WWE ce ne sono 10 che lo meritano di più”
Questa frase è molto ricorrente ed è un’altra bischerata senza senso semplicemente perché WWE non ha mai scelto i suoi campioni sul criterio “di merito”. Altrimenti della lista di inizio editoriale (quando parlo di personaggi chiave della storia della lega) ne avreste avuti ben pochi. E a dirla tutta, WWE sarebbe fallita da un pezzo.
Ad ogni modo, su cosa si basa tale termometro “di merito” presunto?
Principalmente su un incrocio di queste coordinate:
--- aver lottato tanti anni in federazioni minori e dunque potersi accreditare con una lunga gavetta
--- dare l’impressione di possedere molte mosse offensive (ovviamente non realizzabili senza la collaborazione dell’altro e il merito condiviso che come abbiamo visto andrebbe invece sempre riconosciuto a tutti i partecipanti alla sfida)
--- aver magari vinto titoli blasonati o meno in altri contesti
Dunque per il nostro “ribelle” un AJ Styles (atleta che mi piace un sacco, sono stato il primo a portarlo in Italia nel 2005 quando difese il titolo mondiale NWA – anche questa una prima volta nel nostro paese – a Roma contro Petey Williams, giusto per ripararmi da chi con scarsa capacità di comprensione del testo – e ci saranno – leggerà il tutto come una critica verso “il fenomenale”) merita più di Roman Reigns perché ha vinto in TNA, in Giappone e combatte da tanto.
C’è anche chi sui social posta una foto di Styles con i titoli raccolti altrove in passato con la didascalia “che ne sa Roman Reigns” come a voler ribadire la forza di credenziali migliori dovute ai capisaldi che ho elencato.
*** la New Japan Pro Wrestling (nella quale Styles è stato campione) nel 2015 ha organizzato 135 show praticamente tutti nella terra del sol levante. Ovviamente non sempre c’erano le top star ovunque. Reigns nello stesso periodo ha combattuto in WWE per 213 volte in giro per tutto il mondo. Ha fatto suo il titolo massimo. Poi l’anno successivo era nel main event della WrestleMania dei record. La sua rilevanza in quanto campione WWE è galassie più avanti rispetto a chiunque abbia vinto un titolo altrove, come capirete anche dai dati qui sotto. Paradossalmente nella foto di cui sopra la didascalia realistica sarebbe “eppure tutto ciò non conta niente se paragonato a chi vince in WWE”.
Perchè vedete, a WWE (salvo per esigenze di background minimale, ovvero spiegare ai telespettatori casual da dove salti fuori) di chi eri, di cosa hai fatto e di “che tipo di wrestling hai recitato” in precedenza non importa proprio nulla.
Quello non è in continuità con le sue storie, la sua epica, la sua mitologia.
Ora si apre un nuovo sipario.
Nel corso della storia della federazione forse solo Ric Flair ha ottenuto qualcosa in più rispetto a tutto ciò, aggiungendo alla lista anche Sting una volta che si è deciso per il salto della barricata (e con i diritti dei suoi match in WCW in mano ai McMahon ma non voglio divagare…).
Questo perché WWE fa squadra da sola e campionato a sè. E’ una federazione vista in 180 paesi. Il suo marchio è nella top 10 mondiale. L’evento WrestleMania è tra i primi 10 al mondo e supera come diffusione addirittura la Champions League di calcio giocandosela con i mondiali della stessa disciplina, con il SuperBowl e con le Olimpiadi. Non ha confronti possibili con nessuna altra realtà analoga, puntando lei sulla grande “E” di intrattenimento e altri preferendo strade diverse (la New Japan citata ha sempre avuto un principio più “marziale” stando anche all’immortale slogan King of Sports).
Chi diventa campione in WWE lo decide… la WWE. I vertici innanzitutto, ovvero la famiglia McMahon allargata a Triple H sulla base di dati specifici secretati in quanto patrimonio aziendale. E le tante leggende che lavorano dietro le quinte, da Arn Anderson a Dean Malenko, da Fit Finlay a Michael Hayes che hanno occhio per il talento, sanno cosa vuole il pubblico americano, conoscono gli schemi di marketing di riferimento e possono dare suggerimenti. In più addizionate dirigenti dal passato meno noto ma comunque con un po’ di voce in capitolo.
C’è da aggiungere poi che mentre la gavetta di Zayn, Owens, Styles, Rollins e altri è stata evidente e sotto gli occhi di chi segue pure i contesti minori, anche gente come Roman (o Cena, Batista, Orton e via dicendo, ovvero quelli usciti dai territori di sviluppo WWE) ha fatto il suo, allenandosi lontano dalle telecamere al Performance Center e assimilando un fondamentale prioritario: lo stile WWE, ovvero quel “work hard but work smart” di cui ho già scritto che permette di trovare un giusto compromesso tra quello da fare nel ring insieme al tuo avversario e gli oltre 200 incontri all’anno che con viaggi, beneficienza, interviste e via dicendo ti fanno lavorare almeno 320 giorni per ogni cambio di calendario.
Nel momento in cui si pretende che la WWE riconosca un merito di ingresso a chi ha vinto corone altrove – che sia al Tokio Dome o davanti a 500 fan nelle indy americane – sarebbe come chiedere alla Juventus o al Napoli di far partire titolare il capocannoniere della serie C mettendo Dybala e Higuain in panchina. Non ha senso. Roman Reigns è un fuoriclasse come i due calciatori citati? Per WWE sì e quello che conta è solo e soltanto il suo parere. Perché decide lei.
“Sì ma Vince McMahon è bollito, è vecchio, non capisce più niente, fa cose a caso” – ribatterà qualcuno.
Io l’ho visto lavorare a WrestleMania. Sono arrivato alle otto di mattina allo stadio (lo show iniziava alle sei del pomeriggio). Lui probabilmente era lì dall’alba. Ha provato coi wrestler tranne Shane tutte le entrate, con una predisposizione maniacale al dettaglio.
Spero di arrivare alla sua età e di essere “rincoglionito” allo stesso modo vista la lucidità evidente che ha mostrato nell’occasione.
Ma poi su quale base tu che non hai mai fatto nulla per il wrestling (intendo come organizzatore) credi di saperne più del più importante promoter al mondo di sempre di questa disciplina? O di altre leggende che il ring lo hanno calcato? Come puoi mettere in dubbio i loro metri di valutazione pensando che i tuoi siano migliori?
Quando scrivi “Reigns non è pronto per il titolo” sai che tu della sua vita, dell’ora in cui si sveglia, degli allenamenti nei suoi ultimi sette anni, di con che etica approccia il lavoro… non sai davvero nulla?
E così arriviamo alla conclusione che:
8) in WWE quello che hai fatto prima non conta (se non quello che hai fatto mentre eri con lei e sempre che le faccia comodo). E’ un nuovo inizio. Parti da capo. Nessuno ha meriti dovuti a gavetta, esperienze, titoli conquistati altrove. Pretendere che ciò esista significa non capire cosa è la WWE.
E io ti “deraglio” lo show!
Dopo questa panoramica torniamo al match, la parte centrale dell’intrattenimento WWE. Ogni gong è una nuova avventura che racchiude la magia della storyline che già si conosce e dello storytelling sul quale invece hanno lavorato in simbiosi gli atleti per prepararlo al meglio.
Cosa dovrebbe fare un vero fan?
Accomodarsi, sospendere l’incredulità, diventare una tela bianca pronta alle pennellate degli artisti, scoprire che accade, arrivare al verdetto e poi analizzare se è stato coinvolto, divertito, intrattenuto.
Ci saranno match in cui i wrestler hanno fatto centro (insieme, perché funziona così…), altri in cui no. Essendo gli essere umani per indole, carattere e storia personale tutti diversi capiterà anche che qualcuno veda un capolavoro là dove altri individueranno solo noia e sbadigli.
Invece cosa fa il “ribelle”?
Anche stavolta ricorro all’esempistica di Roman Reign vs AJ Styles (a Extreme Rules).
Beh, semplice, ha già deciso di non dare fiducia alla sfida.
Non è pronto a farsi emozionare perché per i suoi concetti distorti di merito, mosse e raccomandazione Reigns non vale niente e dunque “non mi sbatto e non ci investo emotivamente nulla” (così facendo intaccano anche il lavoro di Styles ma sarà dura farglielo capire).
E allora qualsiasi cosa accada diventa una guerra contro il match, contro Roman Reigns e contro la WWE con cori “you can’t wrestle” e “you still suck” anche quando l’ariete tira fuori dal cilindro una powerbomb inattesa (e pensate a quando girino a Styles, si è preso una caduta tosta su una parte del corpo dove probabilmente ha degli acciacchi per trovarsi quello shock value ignorato).
“Ma io canto contro Roman per criticare i booker (gli sceneggiatori)”- si giustifica qualcuno. Quindi ammetti di pagare o di investire del tempo per vedere qualcosa per il quale gli atleti si impegneranno comunque al massimo ma che in maniera autolesionista non solo ignori a prescindere ma tenterai anche di danneggiare?
Logica un po’ strana, non trovate?
Ma da dove nasce questo modo di voler intendere partecipazione e coinvolgimento ai match in modalità così poco piacevole scegliendo per partito preso di non dare l’opportunità agli atleti di farsi intrattenere?
Le risposte sono molteplici e vanno da un “desiderio di centralità personale” al sogno che WWE diventi quello che si ha in testa al momento, da una insoddisfazione nel prodotto attuale che però non porta al definitivo abbandono come se l’esserci sia una droga indepurabile sino ad una semplice scarsa conoscenza della WWE (cosa che questo editoriale tenta di arginare, per chi vorrà leggere e capire). Ogni essere umano anche qui è un’isola e non vorrei generalizzare troppo.
La legittima critica
Di certo non è obiettivo personale l’esistenza di robot che provano e dicono tutti la stessa cosa e la critica – quando legittima, comprovata, sostenuta da fatti certi e numeri o da spirito libero e leggero – è un motore che ha innescato cambiamenti e rivoluzioni.
A volte è anche solo questione di educazione grammaticale.
Scrivere “Roman Reigns non mi emoziona” o “il match di Roman contro Styles mi ha lasciato indifferente” è legittimo e incontestabile se hai dato loro fiducia, hai sospeso l’incredulità e la scintilla non è scoccata.
Dire invece prima ancora della battaglia che “Reigns è incapace” e non provare a vivere il match come dovrebbe fare un vero fan ti rende invece… un insoddisfatto cronico?
Lo stesso se parli di merito, raccomandazioni, numero di mosse, talento… Significa davvero che non sai cosa stai guardando. E se vai a vedere un film romantico ed esci arrabbiato perché nella pellicola non ci sono stati omicidi, beh, il biglietto sbagliato lo hai preso tu.
Con onesta intellettuale ci si dovrebbe chiedere anche cosa ci si aspetta dalle ore dedicate al wrestling WWE. Magari ci si accorgerà che sono richieste impossibili da soddisfare. Oppure che ci sono sigle più adatte ai nostri gusti. O ancora che in effetti abbiamo reclamato alla compagnia magari senza accorgercene di diventare quello che non è e l’abbiamo criticata perché paragonata ad un nostro modello fatto su misura che mai combacerà con la realtà. O ancora che tra le tante cose in un evento da tre ore è accettabile che non tutte rientrino nel nostro gradimento e che ci faremo bastare quello che superano la nostra soggettiva asticella.
I nuovi mark
La deriva “autoritaria” del fan “ribelle” che ho tratteggiato lo ha reso quello che io in gergo personale chiamo “il nuovo mark”.
Il mark in passato era quello che non sapeva come funzionasse il dietro le quinte della disciplina e pensava che tutto fosse autentico, che i match fossero reali sfide fisiche e che il risultato sportivo non venisse accomodato in partenza per favorire lo spettacolo.
Con la diffusione di notizie, spifferi e rumors, la platea web di tifosi irriducibili/hardcore (che mondialmente è quella minoritaria, i numeri si fanno sempre coi cosiddetti casual) ha iniziato ad accumulare nozioni e anticipazioni perdendo il senso della meraviglia e dello stupore e al contempo alimentando uno spirito critico distorto quasi sempre incamminato sui sentieri pericolosi di cui vi ho lungamente parlato oggi.
Col passare degli anni questo target (la quasi totalità del 12% di cui vi ho scritto nei primi capitoli) ha preso l’abitudine di credere di sapere come operi la WWE sia come politiche di backstage che come azienda globale, sentendosi autorizzato a discernere di tali argomenti come se fosse un insider, equiparando la propria opinione a quella dei reali addetti ai lavori e contestando finanche dati statistici o giornalistici blindati (c’è chi arriva a scrivere che WWE tarocchi i bilanci per far credere che il regno di Reigns sia economicamente positivo) con idee personali frutto di tali letture.
Ma andiamo al punto: io ho la percezione che di questo fenomeno ce ne si sia accorti anche a livello di marketing e che questi “nuovi mark” siano ora targettizzati specificatamente. Lo vedo nelle cosiddette news che escono che paiono ideate per compiacerne l’ego così come nei prodotti che acquistano e che sono studiati con scienza per generare appeal su di loro.
*** dopo aver visto due WrestleMania e due Raw da dietro le quinte, vi posso assicurare che il 90% delle news che leggete è fuffa. Vi siete mai chiesti da dove provengano (quando non di fonte ufficiale WWE)? Magari ve ne parlo in un futuro editoriale.
Per chiudere, ho la sensazione che questa fetta di fan a sua insaputa stia già distruggendo con pigrizia, con i download o gli sharing illegali e con l’incanalamento specifico verso una “ribellione controllata” (da qui il primo termine “ribelli”) quegli spazi dove il wrestling che hanno in testa e che reclamano a gran voce conserva ancora qualche piccolo habitat di esistenza.
Di più non intendo espormi o dire, il tempo su questo come sempre sarà sovrano.
Le premesse: lavoro con il wrestling da 16 anni e lo guardo da almeno 34. Possiedo una biblioteca tra libri, riviste e reperti cartacei di oltre 5000 pezzi, alcuni dei quali anche rari. Ritengo con poca umiltà di incarnare il più vasto e completo background di matrice giornalistica tra chi in Italia tratta della disciplina (ne ho commentato circa 8000 ore)! Tenetelo presente quando mi addentrerò in analisi e dati perché nulla nasce da invenzioni o supposizioni. Non firmo delle ipotesi e quando accade lo dichiaro in modo esplicito.
La richiesta: leggete con mente aperta. Fatevi domande. Indagate. Mettete per cortesia in discussione quello in cui credete.
Si comincia.
Cosa è il wrestling?
I padri sono tanti. La glima normanna, il pancrazio pesante ellenico, le codificazioni d’esibizione egiziane, gli stili di ingaggio fisico medioevali, le guerre interne americane. Noi però saltiamo a piè pari l’epoca antica (potete approfondire se vi va, ci sono numerose pubblicazioni a tema) e ci spostiamo ad inizio 1900 quando il wrestling è sostanzialmente il più vicino parente di ciò che è oggi: una truffa.
I filoni sono due. Il primo: gli spettacoli itineranti circensi che propongono sfide col campione del tendone e attraverso un’abile gioco persuasivo inducono gli spettatori a puntare denaro sullo sfidante del luogo (che scende in campo attratto dalla possibilità di guadagnare del denaro qualora resista per un lasso di tempo stabilito senza essere battuto), immancabilmente sconfitto dal professionista di turno.
Il secondo: quello più propriamente sportivo che parte come reale contest fisico e tecnico ma si tramuta rapidamente in uno show dagli esiti predeterminati innanzitutto per permettere a organizzatori e atleti di introitare manipolando i risultati per spremere il massimo dalle scommesse clandestine.
Ma poi qualcosa nel gioco si rompe. I fan iniziano a disertare le arene. I match sono lunghi, noiosi, statici, troppo tecnici. Alcuni impresari geniali si accorgono che devono movimentare lo stagno: si inventano scambi coreografati, le sfide di coppia, le personalità strabordanti da abbinare ai wrestler e un calendario di rivalità (i cosiddetti feud) attraverso il quale raccontare storie in continuità narrativa.
Ho spremuto in poche righe (mi si perdonerà la sintesi) un cambiamento epocale e un fatto storico spesso dimenticato: per diventare quello che conosciamo oggi, ovvero uno spettacolo, il wrestling americano decide di mettere in secondo piano la tecnica combattiva innalzando a primario talento da coltivare la capacità di creare coinvolgimento emotivo, corrispondenza e vicinanza con un pubblico da fidelizzare con strategie miste desunte dalla letteratura, dalla mitologia e dal teatro. Il procedimento non è uguale e radicale in ogni Stato a stelle e strisce ma le capitali della lotta, da New York a Washington, da Boston a Philadelphia, ricadono in questo cliché. Si discostano alcune zone della costa Ovest e le grandi città centrali come St Louis, spesso per esigenza specifica vantando campioni (Thesz, Gagne) particolarmente abili nel comparto amatoriale.
Il personaggio chiave della proposta WWE
Da allora, salvo rarissimi casi, l’uomo di punta della WWE dalle incarnazioni primitive sino all’attuale è un face (un buono) che deve impostare il match in maniera schematica e ripetitiva e cioè: prenderle di brutto, apparentemente soccombere dinnanzi alle scorrettezze dell’heel (il cattivo) e poi improvvisamente resuscitare come Lazzaro e chiudere con autorità.
Il tutto seguendo un ulteriore mantra: work hard but work smart ovvero lavora duro ma con intelligenza, usa uno stile da peso massimo (anche se non lo sei) e pensa alla tua longevità.
Esempi ne abbiamo? Certo e in abbondanza: Bruno Sammartino. Il mancino Pedro Morales. Bob Backlund. Hulk Hogan. The Ultimate Warrior. Randy Savage. Steve Austin. The Rock. Triple H. John Cena.
La loro aderenza allo stampo è totale e si va da Warrior che resiste a cinque flying elbowsmash consecutivi di Savage (ai tempi la sua infallibile mossa finale!) a Shawn Michaels che con addosso 85 kili circa sembra fatto di gomma e si rialza anche contro ogni logica apparente. Paradossalmente anche il primo Undertaker potrebbe essere associato al gruppo e lo stesso dicasi per Bret Hart che comunque dopo lunghe fasi d’incasso chiudeva col giro delle sue cinque mosse del destino.
(ammetto di non avere ancora un convincimento definito sul solo Eddie Guerrero).
Le eccezioni? Poche e a volte opinabili o argomentabili. Come i super-muscolosi Batista e Brock Lesnar che chiaramente per fisico e stazza non possono che essere i predatori. O i vari Randy Orton, Edge, CM Punk e Seth Rollins che però sono campioni malvagi nella narrativa della compagnia e dunque chiamati ad un altro tipo di lavoro.
Manca qualcuno? Beh sì, Daniel Bryan. L’ho tenuto per ultimo perché la sua consacrazione è in pieno archetipo WWE. Prima infatti batte Triple H che per vendetta lo infortuna. Lui però torna nel ring per il main event con Batista e Randy Orton, incassa di tutto, finisce in barella ma, rifiutando le cure mediche, arremba il quadrato e fa suo il titolo con cuore e tenacia. Vi sembra un copione differente dagli altri?
No, perché non lo è.
Sin qui abbiamo però assodato due cose incontestabili:
1) per diventare nazionale il wrestling americano ha storicamente rinunciato alla tecnica per favorire lo spettacolo e la WWE più di qualunque altra sigla ha fatto sua questa strada.
2) il personaggio chiave del wrestling WWE è un eroe che deve fronteggiare difficoltà estreme, arrivare quanto più vicino al baratro e poi recuperare in maniera sovrumana.
La finalità della WWE e la sindrome del salgo in cattedra
Ma quale è la finalità della WWE? Perché dovremmo guardarla e investirci del tempo?
Ce lo dice la stessa federazione addirittura inserendolo nel suo nome: per l’intrattenimento (la E di entertainment). E cosa significa questa parola?
Da vocabolario Treccani: “l’intrattenere piacevolmente. In senso più concreto: passatempo, divertimento”.
O, se preferite, Leopardi: “arti che servono alla giocondità della vita inutile”.
La definizione è molto chiara. Non è un mantra o una religione, è qualcosa che deve alleggerire il male di vivere, emozionare, coinvolgere, stupire. Come un film, un fumetto, un musical, un libro. Ma a base sportiva e con una proposta narrativa differente, specifica e unica.
E come possiamo onorare questa finalità? Semplice, guardando gli show con gli occhi del bambino, sospendendo la nostra incredulità e adeguandoci a prescindere a un compromesso banale condensato in: “so che è un mondo di fantasia, so che non tutto sarà logico ma ne sono consapevole, lo accetto, stacco la spina del cervello, isolo il grillo parlante della ragione ed entro in questa realtà tanto distorta quanto affascinante”.
Ogni volta che accendete la Tv o partecipate ad uno show live il contratto che firmate con la WWE è proprio questo, che ve ne rendiate conto o meno. Chiedete di ricevere intrattenimento accettando le leggi e le regole della federazione. E aggiungo: siete voi che entrate nel suo universo, non il suo universo che entra in voi.
Eppure con l’avvento di Internet e tutto il connesso (siti, newsletter, notizie, rumors) questo patto d’acciaio ha iniziato ad arrugginirsi. Una fetta di fan (che da documenti riservati di marketing che ho potuto visionare è quantificabile attorno al 12% degli interessati al prodotto WWE, arrotondati per eccesso) ha deciso per vari motivi di dissociarsi dal concordato, disarcionando l’intrattenimento dal ruolo chiave dell’intesa per sostituirlo con i termini “talento, mosse, merito, raccomandazione”.
Il risultato? Che non stai più assistendo allo show per quello che è e che si propone di essere ma lo fai per ergerti su un piedistallo ponendo te stesso al centro dell’attenzione. E con il tempo ti tramuti da fan del wrestling WWE a fan della tua personale idea del wrestling WWE che ovviamente non è quella proposta in Tv con la conseguenza che sarai sempre insoddisfatto dal prodotto a meno che non si realizzi in toto o in parte il personale disegno partorito dalle tue aspettative (sempre che nel frattempo non siano mutate).
*** non travisate, 12% non significa che in una pagina FaceBook o in un sito di settore troverete quella percentuale di “dissidenti” e l’88% di “allineati”. La maggioranza bulgara della prima percentuale è invece quasi totalmente dislocata sui mezzi social e web dove rafforza le sue convinzioni su un principio di consociativismo di reggenza.
Piccola parentesi: lo strano caso del New Day
“Patetici”.
“Sono dei pagliacci”
“Anonimi e titolo immeritato, credo che i bookers si facciano di roba buona”
“L’unica reazione che mi suscitano è quella di alzarmi e andare a fare altro”
“Nel ring non sanno fare un c….”
“Kofi per me non serve più in WWE, ci sono lottatori più giovani e migliori di lui”
“La peggiore stable di sempre”
“Siamo alla frutta, adesso vince chi è più pirla”
“Ogni volta che la WWE ci fa pensare a un rilancio della categoria tag team poi fa queste cazzate”
“Sono meno di zero”
“Spero li licenzino presto tutti e tre”
“Abbiamo toccato il fondo”
Questi qui sopra sono alcuni commenti esemplificativi di come il New Day fosse percepito dall’utenza della mia fanpage FaceBook ad aprile 2015 (e più in generale in tutto il web). Non ho tagliato quelli positivi per vetrinare solo il negativo. Il 95% dei lasciti nel cyberspazio ad imperitura memoria risuonava con questo tenore. E né si tratta di opinioni legate all’essenza allora malvagia (heel) dei tre componenti dell’alleanza. No no, qui li si voleva proprio fuori dalla WWE perché giudicati inutili, scarsi, vergognosi e indegni.
Andiamo però avanti di un anno e il New Day è la fazione più popolare della compagnia tanto che a WrestleMania il suo merchandising è il top seller assoluto con i fan adulti e iper-critici che hanno improvvisamente virato, cambiato rotta e ora fanno man bassa di t-shirt e unicorni fluorescenti.
In 12 mesi cosa è cambiato in Big E, Xavier Woods e Kofi Kingston?
Il talento è bene o male sempre quello.
Il parco mosse mostrato nel ring non ha goduto di sensibili differenze.
Il merito precedentemente acquisito con la gavetta altrove è per forza di cose immutabile.
E di raccomandazioni possibili nemmeno l’ombra.
E allora perché questo mutamento?
Perché il fan cronicamente insoddisfatto è volubile ed è pronto a rivedere le sue apparentemente inossidabili norme se qualcosa improvvisamente va di moda e sei “out” se non sali sul carro dei vincitori. In fondo è un metodo comportamentale ampiamente trattato dalle discipline umanistiche e scientifiche.
Il New Day è “andato over” (diventato straordinariamente popolare) grazie allo spettatore occasionale (che poi è la fetta più grande di chi guarda in USA la WWE) e contro ogni pronostico iniziale puntando proprio sulla commedia dell’assurdo e sulla grande “E” di intrattenimento. Dunque rispettando il patto compagnia/fruitore di cui vi ho scritto nel paragrafo precedente. Niente manovre aumentate o gavetta in qualche oscuro buco dimenticato dal mondo.
Però la storia è cool, ci si può abbinare una mitologia personale del “io sapevo che finiva così” e allora tutti a bordo a inneggiare al cereale culone!
Non leggerete più in giro “Nel ring non sanno fare niente” come accade per Roman Reigns anche perché in quel caso si verrebbe divorati da una massa soverchiante (in fondo conta più il numero che la qualità delle tesi) e si cadrebbe dal piedistallo del dottorato in WWE sul quale ci si immagina di stare.
Cosa è un match?
Prima di utilizzare la cassetta della conoscenza per smontare il modo malato col quale la minoranza oggetto dell’editoriale (da qui la chiamerò “i ribelli” che come nome fa anche figo e non è spregiativo) vorrebbe che anche voi guardaste la WWE è bene chiarire cosa è un match all’interno della proposta della lega.
Che si tratti di un combattimento tra singoli o fazioni è facile arrivarci. Ma focalizziamoci sulle due fasi principali, quella passiva e quella attiva:
--- fase passiva: è il motivo del contendere. Può essere drammatico (la custodia di un figlio), competitivo (il voler diventare campione), caciarone (io ballo meglio di te), personale (un’amicizia che si rompe), patriottico (difendo la mia nazione dagli invasori incivili) e così via. Quello che sta a monte, il perché si entra nel ring e con quale scopo si chiama storyline e non ricade nella sfera di controllo degli atleti. Ci sono sceneggiatori e dirigenti specifici che se ne fanno carico.
--- la fase attiva: è quanto raccontato nel quadrato dai wrestler coinvolti. Si chiama storytelling e prevede numerose possibilità come il lavorare ad una parte del corpo del nemico, l’utilizzo di certe scorrettezze o scorciatoie, il gestire l’hot tag in una battaglia a squadre… Questa fase è concordata all’unisono dagli atleti con la supervisione di un veterano (road agent) e dell’arbitro.
*** lo storytelling non si lega solo alle strategie o alle mosse. E’ anche tempi di reazione, espressioni facciali, interpretazioni del dolore e della fatica e molte altre sfaccettature parimenti importanti.
Storyline e storytelling hanno un minimo comune denominatore: essere al servizio dell’intrattenimento del fan. Un program perfetto parte da una storyline avvincente (ad esempio il grande sogno di Daniel Bryan in rappresentanza dell’uomo comune che è osteggiato dall’Authority che vede in lui un atleta non degno di essere campione) e si concretizza in una sfida dallo storytelling emozionante (il modo con cui Daniel corona l’inseguimento al titolo a WrestleMania). Con una aggiunta che ci riporta al punto che in precedenza avevo contrassegnato col numero 2 dopo una incontrovertibile analisi storica e cioè che:
“il personaggio chiave del wrestling WWE è un eroe che deve fronteggiare difficoltà estreme, arrivare quanto più vicino al baratro e poi recuperare in maniera sovrumana”.
Le mosse
“Roman Reigns è scarso, fa solo tre mosse”
Chi scrive frasi simili a quella sopra riportata per me è ignorante. Nel senso che ignora cosa sta guardando (anche se ne vuole magari parlare da esperto) e se continua a farlo pur esprimendo concetti come questo se poi lo show non gli piace il problema è suo e non del programma in sé.
Dovrebbe farsi un coro contro, contestare se stesso per la pessima scelta e riflettere su come sia meglio investire le ore della propria vita.
Il tutto nasce da un approccio sbagliato al wrestling WWE ovvero che le mosse siano la parte centrale di quello che ti viene proposto e più sembra che tu esegua tecniche offensive più sei abile e preparato e di conseguenza meritevole di stare al top.
La realtà è invece un’altra. Al centro della proposta WWE ci sta l’intrattenimento e le emozioni ad esso connesse. Le mosse sono un mezzo per arrivare al traguardo. Non il traguardo.
*** è un dato di fatto che i più leggendari campioni WWE passati alla storia ed inseriti nella Hall of Fame adottassero un numero di mosse minimali nei loro match
Peraltro l’incapacità di comprendere tecnicamente il wrestling è palese se si considera che ogni manovra è concordata e non sarebbe possibile senza la collaborazione tra gli atleti. Così se uno dinamico salta, corre e si tuffa ne serve un altro grosso che è al posto giusto al momento giusto, che bilancia i pesi e attenua con la sua massa la caduta.
E’ l’a-b-c di ogni percorso di allenamento volto a diventare un wrestler professionista: si balla in due, nessuno entra nel quadrato e “trascina” l’altro a un bel match. Il merito o il demerito finale è sempre split, metà e metà. Chiedete a chi pratica.
Ne consegue che se AJ Styles (che fonda il suo stile sulla destrezza e la rapidità e pesa 90 kg circa) combatte contro Roman Reigns (che invece si basa sulle tecniche di potenza pesando 125 kg) le tante mosse del primo e le poche del secondo sono tutte merito condiviso di entrambi che tengono fede alla stazza donata loro da madre natura e uniscono gli sforzi per arrivare in fondo (il risultato finale e l’intrattenimento dei fan).
Conviene ribadirlo: merito condiviso.
Sostenere che Styles ha fatto il 90% del match e Reigns il 10%... beh, vi fa cadere nell’ambito dell’ignoranza di inizio paragrafo.
Questo è quello che è. Il “ribelle” invece inquina uno dei fondamentali basilari della disciplina con una teoria spuria assolutamente improponibile ovvero che conta solo quanta roba d’attacco fai, dimenticandosi proprio del concetto capitale di cooperazione e mutualità tra i wrestler.
Ma ragioniamo per assurdo tenendo l’esempio proposto: Reigns decide di mostrare di più. Aggiunge backbreaker, powerslam, powerbomb, sidewalk slam e belly-to-belly suplex. Tutte tecniche di cui conosce i segreti ma alle quali non fa ricorso perché non utili allo storytelling dei suoi match (che, essendo lui il face di punta WWE, devono entrare nell’epica ricorrente evidenziata precedentemente col numero 2).
Orbene, significa che qualcuno deve subirle. Ecco, ora mettetevi nei panni di uno che pesa 30/35 kg in meno come AJ Styles o Sami Zayn. E pensate a quanto vengano ridotte efficienza fisica e longevità di questi ultimi giacché si tratta di schianti accompagnati con addosso una massa ben più grossa della loro (in una compagnia in cui arrivi anche ai 200 match all’anno).
Capite dove voglio arrivare? Pretendere varietà dai giganti significa condannare quelli più piccoli che dovrebbero proporre lo stesso i loro cavalli di battaglia (in sé una impresa aerobica demandante) e al contempo subire pesanti cadute continue. Una follia!
Mettiamo però da parte questi discorsi perché devono passare dei concetti forti e chiari e cioè che:
3) Lo scopo di un match WWE è quello di intrattenerti sfruttando storyline e storytelling, usando al meglio le capacità e i fisici specifici delle sue superstar.
4) Nessun wrestler combatte da solo. Tutte le mosse che esegue sono per metà frutto del lavoro e della collaborazione dell’avversario. Ogni merito a fine battaglia in questo comparto è totalmente condiviso.
5) visto il punto 4, non esiste alcuna meritocrazia supplementare da attribuire a chi in un match appare più mobile o offensivo (di solito il face e/o il più piccolo in presenza di differenza di stazza).
La raccomandazione
Vorrei chiarire che l’editoriale non vuole essere un elogio sfrenato di Roman Reigns, tuttavia il wrestler sarà spesso citato perché attuale pietra di paragone ideale per evidenziare le distonie dei “ribelli” che lo hanno eletto a loro nemico pubblico numero uno. Più avanti affronteremo comunque anche il giusto diritto di critica perché quest’ultimo non deve di certo andare perso e chiaramente al mirino non sfuggirà nemmeno l’attuale campione dei pesi massimi WWE.
Un altro dei punti di snodo è: “tal dei tali ricopre quel posto perché è raccomandato” con obiettivi recenti lo stesso Roman Reigns e Charlotte Flair.
Nel affermare ciò probabilmente si ha in mente un modello molto latino di assegnazione di posti, ruoli e mestieri che sovente avviene non col metro della competenza ma con quello della parentela.
Per Reigns la deduzione nasce in quanto cugino di The Rock e dunque sicuramente spinto e sponsorizzato da quest’ultimo.
Ora, dopo avervi spiegato che il match si fa sempre in due e servono necessariamente forti competenze da parte di tutti i coinvolti (soprattutto per reggere ad alto livello ai ritmi lavorativi WWE), secondo voi una compagnia quotata in borsa e a conduzione amministrativa evidente (i McMahon) rischia il suo futuro e milioni di dollari oltre alla sua reputazione in base a una raccomandazione?
La cosa appare stupida e ridicola solo a leggerla eppure in tanti vogliono crederci per avere qualcosa a cui aggrapparsi e giustificare il proprio modo distorto di guardare gli show della federazione.
Ma poniamo che The Rock abbia davvero questa mostruosa influenza tanto da poter decidere da esterno chi sale al top della compagnia, sostanzialmente ignorando ogni regola societaria americana e internazionale.
Beh, allora perché CM Punk ha regnato per 434 giorni quando lo poteva fare un suo altro cugino entrando così nella storia? Chessò, magari Deuce (del team Deuce & Domino, ve li ricordate)? O Umaga?
In fondo non serve altro, basta la parola di The Rock a garanzia, dunque…
E perché sua cugina Tamina non ha mai vinto il poco prestigioso titolo delle Divas? In fondo The Rock scrive spesso di lei sui social, le ha regalato un’auto, sono legatissimi e le ha permesso di trovare qualche piccola parte cinematografica.
Misteri!
Qualcuno su FaceBook ha avuto il coraggio di scrivermi: “perché le altre volte qualche collaboratore di Vince McMahon gli avrà fatto capire che era meglio non assecondarlo mentre stavolta non l’hanno fatto ragionare”.
Vi rendete conto?
La verità è che i figli dei lottatori e coloro che provengono da alcuni particolari clan fruiscono invero di grosse facilitazioni nell’aprirsi porte prioritarie verso il radar della WWE. E’ normale. Così gira il mondo. Hai papà che ti insegna la disciplina, la vivi sin da ragazzo, magari un tuo zio possiede un ring nel giardino o una palestra specifica di formazione che puoi frequentare senza sbattimenti.
Ma poi il resto sta tutto a te, al tuo impegno, alle tue gambe. E ci vuole sempre pure un pizzico di fortuna.
La storia della WWE è costellata di figli e/o parenti di wrestler che non hanno trovato fama assoluta. L’ultimo è Cody Rhodes che se ne è andato quando ha capito che non avrebbero mai puntato con forza su di lui. Ma a cadere dalla scala che porta al paradiso della gloria sono stati anche la figlia di Eddie Guerrero, il figlio di “British Bulldog” Davey Boy Smith, Camacho (figlio di Haku), Ted DiBiase jr e via dicendo. La lista è lunga.
Quando WWE lancia una star nell’olimpo, che sia Reigns o Shawn Michaels o Bret Hart o Kurt Angle lo fa seguendo una sua visione, un suo piano strategico, sue rilevazioni di mercato.
O credete che si entri in una sala riunioni e Vince McMahon arbitrariamente dica: “dai, facciamo così perché lo dico io”?
Beh, questa è una rappresentazione bambinesca di una società con ramificazioni mondiali, uffici praticamente in ogni continente e specializzata a “fiutare il mercato” per capire dove tira il vento. Se credete che accada davvero questo, intellettualmente parlando non avete più di 6 anni.
Dunque anche stavolta traiamo importanti insegnamenti e cioè:
6) l’aver avuto un parente che ha praticato wrestling non significa che sfonderai automaticamente in WWE. Hai dei vantaggi nel farti vedere dai suoi talent scout. E basta.
7) pensare che una compagnia leader mondiale come WWE decida che un atleta diventerà campione in base alle sue parentele è una fesseria.
Il merito
“Roman Reigns non merita di essere campione. In WWE ce ne sono 10 che lo meritano di più”
Questa frase è molto ricorrente ed è un’altra bischerata senza senso semplicemente perché WWE non ha mai scelto i suoi campioni sul criterio “di merito”. Altrimenti della lista di inizio editoriale (quando parlo di personaggi chiave della storia della lega) ne avreste avuti ben pochi. E a dirla tutta, WWE sarebbe fallita da un pezzo.
Ad ogni modo, su cosa si basa tale termometro “di merito” presunto?
Principalmente su un incrocio di queste coordinate:
--- aver lottato tanti anni in federazioni minori e dunque potersi accreditare con una lunga gavetta
--- dare l’impressione di possedere molte mosse offensive (ovviamente non realizzabili senza la collaborazione dell’altro e il merito condiviso che come abbiamo visto andrebbe invece sempre riconosciuto a tutti i partecipanti alla sfida)
--- aver magari vinto titoli blasonati o meno in altri contesti
Dunque per il nostro “ribelle” un AJ Styles (atleta che mi piace un sacco, sono stato il primo a portarlo in Italia nel 2005 quando difese il titolo mondiale NWA – anche questa una prima volta nel nostro paese – a Roma contro Petey Williams, giusto per ripararmi da chi con scarsa capacità di comprensione del testo – e ci saranno – leggerà il tutto come una critica verso “il fenomenale”) merita più di Roman Reigns perché ha vinto in TNA, in Giappone e combatte da tanto.
C’è anche chi sui social posta una foto di Styles con i titoli raccolti altrove in passato con la didascalia “che ne sa Roman Reigns” come a voler ribadire la forza di credenziali migliori dovute ai capisaldi che ho elencato.
*** la New Japan Pro Wrestling (nella quale Styles è stato campione) nel 2015 ha organizzato 135 show praticamente tutti nella terra del sol levante. Ovviamente non sempre c’erano le top star ovunque. Reigns nello stesso periodo ha combattuto in WWE per 213 volte in giro per tutto il mondo. Ha fatto suo il titolo massimo. Poi l’anno successivo era nel main event della WrestleMania dei record. La sua rilevanza in quanto campione WWE è galassie più avanti rispetto a chiunque abbia vinto un titolo altrove, come capirete anche dai dati qui sotto. Paradossalmente nella foto di cui sopra la didascalia realistica sarebbe “eppure tutto ciò non conta niente se paragonato a chi vince in WWE”.
Perchè vedete, a WWE (salvo per esigenze di background minimale, ovvero spiegare ai telespettatori casual da dove salti fuori) di chi eri, di cosa hai fatto e di “che tipo di wrestling hai recitato” in precedenza non importa proprio nulla.
Quello non è in continuità con le sue storie, la sua epica, la sua mitologia.
Ora si apre un nuovo sipario.
Nel corso della storia della federazione forse solo Ric Flair ha ottenuto qualcosa in più rispetto a tutto ciò, aggiungendo alla lista anche Sting una volta che si è deciso per il salto della barricata (e con i diritti dei suoi match in WCW in mano ai McMahon ma non voglio divagare…).
Questo perché WWE fa squadra da sola e campionato a sè. E’ una federazione vista in 180 paesi. Il suo marchio è nella top 10 mondiale. L’evento WrestleMania è tra i primi 10 al mondo e supera come diffusione addirittura la Champions League di calcio giocandosela con i mondiali della stessa disciplina, con il SuperBowl e con le Olimpiadi. Non ha confronti possibili con nessuna altra realtà analoga, puntando lei sulla grande “E” di intrattenimento e altri preferendo strade diverse (la New Japan citata ha sempre avuto un principio più “marziale” stando anche all’immortale slogan King of Sports).
Chi diventa campione in WWE lo decide… la WWE. I vertici innanzitutto, ovvero la famiglia McMahon allargata a Triple H sulla base di dati specifici secretati in quanto patrimonio aziendale. E le tante leggende che lavorano dietro le quinte, da Arn Anderson a Dean Malenko, da Fit Finlay a Michael Hayes che hanno occhio per il talento, sanno cosa vuole il pubblico americano, conoscono gli schemi di marketing di riferimento e possono dare suggerimenti. In più addizionate dirigenti dal passato meno noto ma comunque con un po’ di voce in capitolo.
C’è da aggiungere poi che mentre la gavetta di Zayn, Owens, Styles, Rollins e altri è stata evidente e sotto gli occhi di chi segue pure i contesti minori, anche gente come Roman (o Cena, Batista, Orton e via dicendo, ovvero quelli usciti dai territori di sviluppo WWE) ha fatto il suo, allenandosi lontano dalle telecamere al Performance Center e assimilando un fondamentale prioritario: lo stile WWE, ovvero quel “work hard but work smart” di cui ho già scritto che permette di trovare un giusto compromesso tra quello da fare nel ring insieme al tuo avversario e gli oltre 200 incontri all’anno che con viaggi, beneficienza, interviste e via dicendo ti fanno lavorare almeno 320 giorni per ogni cambio di calendario.
Nel momento in cui si pretende che la WWE riconosca un merito di ingresso a chi ha vinto corone altrove – che sia al Tokio Dome o davanti a 500 fan nelle indy americane – sarebbe come chiedere alla Juventus o al Napoli di far partire titolare il capocannoniere della serie C mettendo Dybala e Higuain in panchina. Non ha senso. Roman Reigns è un fuoriclasse come i due calciatori citati? Per WWE sì e quello che conta è solo e soltanto il suo parere. Perché decide lei.
“Sì ma Vince McMahon è bollito, è vecchio, non capisce più niente, fa cose a caso” – ribatterà qualcuno.
Io l’ho visto lavorare a WrestleMania. Sono arrivato alle otto di mattina allo stadio (lo show iniziava alle sei del pomeriggio). Lui probabilmente era lì dall’alba. Ha provato coi wrestler tranne Shane tutte le entrate, con una predisposizione maniacale al dettaglio.
Spero di arrivare alla sua età e di essere “rincoglionito” allo stesso modo vista la lucidità evidente che ha mostrato nell’occasione.
Ma poi su quale base tu che non hai mai fatto nulla per il wrestling (intendo come organizzatore) credi di saperne più del più importante promoter al mondo di sempre di questa disciplina? O di altre leggende che il ring lo hanno calcato? Come puoi mettere in dubbio i loro metri di valutazione pensando che i tuoi siano migliori?
Quando scrivi “Reigns non è pronto per il titolo” sai che tu della sua vita, dell’ora in cui si sveglia, degli allenamenti nei suoi ultimi sette anni, di con che etica approccia il lavoro… non sai davvero nulla?
E così arriviamo alla conclusione che:
8) in WWE quello che hai fatto prima non conta (se non quello che hai fatto mentre eri con lei e sempre che le faccia comodo). E’ un nuovo inizio. Parti da capo. Nessuno ha meriti dovuti a gavetta, esperienze, titoli conquistati altrove. Pretendere che ciò esista significa non capire cosa è la WWE.
E io ti “deraglio” lo show!
Dopo questa panoramica torniamo al match, la parte centrale dell’intrattenimento WWE. Ogni gong è una nuova avventura che racchiude la magia della storyline che già si conosce e dello storytelling sul quale invece hanno lavorato in simbiosi gli atleti per prepararlo al meglio.
Cosa dovrebbe fare un vero fan?
Accomodarsi, sospendere l’incredulità, diventare una tela bianca pronta alle pennellate degli artisti, scoprire che accade, arrivare al verdetto e poi analizzare se è stato coinvolto, divertito, intrattenuto.
Ci saranno match in cui i wrestler hanno fatto centro (insieme, perché funziona così…), altri in cui no. Essendo gli essere umani per indole, carattere e storia personale tutti diversi capiterà anche che qualcuno veda un capolavoro là dove altri individueranno solo noia e sbadigli.
Invece cosa fa il “ribelle”?
Anche stavolta ricorro all’esempistica di Roman Reign vs AJ Styles (a Extreme Rules).
Beh, semplice, ha già deciso di non dare fiducia alla sfida.
Non è pronto a farsi emozionare perché per i suoi concetti distorti di merito, mosse e raccomandazione Reigns non vale niente e dunque “non mi sbatto e non ci investo emotivamente nulla” (così facendo intaccano anche il lavoro di Styles ma sarà dura farglielo capire).
E allora qualsiasi cosa accada diventa una guerra contro il match, contro Roman Reigns e contro la WWE con cori “you can’t wrestle” e “you still suck” anche quando l’ariete tira fuori dal cilindro una powerbomb inattesa (e pensate a quando girino a Styles, si è preso una caduta tosta su una parte del corpo dove probabilmente ha degli acciacchi per trovarsi quello shock value ignorato).
“Ma io canto contro Roman per criticare i booker (gli sceneggiatori)”- si giustifica qualcuno. Quindi ammetti di pagare o di investire del tempo per vedere qualcosa per il quale gli atleti si impegneranno comunque al massimo ma che in maniera autolesionista non solo ignori a prescindere ma tenterai anche di danneggiare?
Logica un po’ strana, non trovate?
Ma da dove nasce questo modo di voler intendere partecipazione e coinvolgimento ai match in modalità così poco piacevole scegliendo per partito preso di non dare l’opportunità agli atleti di farsi intrattenere?
Le risposte sono molteplici e vanno da un “desiderio di centralità personale” al sogno che WWE diventi quello che si ha in testa al momento, da una insoddisfazione nel prodotto attuale che però non porta al definitivo abbandono come se l’esserci sia una droga indepurabile sino ad una semplice scarsa conoscenza della WWE (cosa che questo editoriale tenta di arginare, per chi vorrà leggere e capire). Ogni essere umano anche qui è un’isola e non vorrei generalizzare troppo.
La legittima critica
Di certo non è obiettivo personale l’esistenza di robot che provano e dicono tutti la stessa cosa e la critica – quando legittima, comprovata, sostenuta da fatti certi e numeri o da spirito libero e leggero – è un motore che ha innescato cambiamenti e rivoluzioni.
A volte è anche solo questione di educazione grammaticale.
Scrivere “Roman Reigns non mi emoziona” o “il match di Roman contro Styles mi ha lasciato indifferente” è legittimo e incontestabile se hai dato loro fiducia, hai sospeso l’incredulità e la scintilla non è scoccata.
Dire invece prima ancora della battaglia che “Reigns è incapace” e non provare a vivere il match come dovrebbe fare un vero fan ti rende invece… un insoddisfatto cronico?
Lo stesso se parli di merito, raccomandazioni, numero di mosse, talento… Significa davvero che non sai cosa stai guardando. E se vai a vedere un film romantico ed esci arrabbiato perché nella pellicola non ci sono stati omicidi, beh, il biglietto sbagliato lo hai preso tu.
Con onesta intellettuale ci si dovrebbe chiedere anche cosa ci si aspetta dalle ore dedicate al wrestling WWE. Magari ci si accorgerà che sono richieste impossibili da soddisfare. Oppure che ci sono sigle più adatte ai nostri gusti. O ancora che in effetti abbiamo reclamato alla compagnia magari senza accorgercene di diventare quello che non è e l’abbiamo criticata perché paragonata ad un nostro modello fatto su misura che mai combacerà con la realtà. O ancora che tra le tante cose in un evento da tre ore è accettabile che non tutte rientrino nel nostro gradimento e che ci faremo bastare quello che superano la nostra soggettiva asticella.
I nuovi mark
La deriva “autoritaria” del fan “ribelle” che ho tratteggiato lo ha reso quello che io in gergo personale chiamo “il nuovo mark”.
Il mark in passato era quello che non sapeva come funzionasse il dietro le quinte della disciplina e pensava che tutto fosse autentico, che i match fossero reali sfide fisiche e che il risultato sportivo non venisse accomodato in partenza per favorire lo spettacolo.
Con la diffusione di notizie, spifferi e rumors, la platea web di tifosi irriducibili/hardcore (che mondialmente è quella minoritaria, i numeri si fanno sempre coi cosiddetti casual) ha iniziato ad accumulare nozioni e anticipazioni perdendo il senso della meraviglia e dello stupore e al contempo alimentando uno spirito critico distorto quasi sempre incamminato sui sentieri pericolosi di cui vi ho lungamente parlato oggi.
Col passare degli anni questo target (la quasi totalità del 12% di cui vi ho scritto nei primi capitoli) ha preso l’abitudine di credere di sapere come operi la WWE sia come politiche di backstage che come azienda globale, sentendosi autorizzato a discernere di tali argomenti come se fosse un insider, equiparando la propria opinione a quella dei reali addetti ai lavori e contestando finanche dati statistici o giornalistici blindati (c’è chi arriva a scrivere che WWE tarocchi i bilanci per far credere che il regno di Reigns sia economicamente positivo) con idee personali frutto di tali letture.
Ma andiamo al punto: io ho la percezione che di questo fenomeno ce ne si sia accorti anche a livello di marketing e che questi “nuovi mark” siano ora targettizzati specificatamente. Lo vedo nelle cosiddette news che escono che paiono ideate per compiacerne l’ego così come nei prodotti che acquistano e che sono studiati con scienza per generare appeal su di loro.
*** dopo aver visto due WrestleMania e due Raw da dietro le quinte, vi posso assicurare che il 90% delle news che leggete è fuffa. Vi siete mai chiesti da dove provengano (quando non di fonte ufficiale WWE)? Magari ve ne parlo in un futuro editoriale.
Per chiudere, ho la sensazione che questa fetta di fan a sua insaputa stia già distruggendo con pigrizia, con i download o gli sharing illegali e con l’incanalamento specifico verso una “ribellione controllata” (da qui il primo termine “ribelli”) quegli spazi dove il wrestling che hanno in testa e che reclamano a gran voce conserva ancora qualche piccolo habitat di esistenza.
Di più non intendo espormi o dire, il tempo su questo come sempre sarà sovrano.