5 Star Frog Splash #218 – Quando mancano le palle

D’altronde lo sapevamo che non poteva essere tutto rose e fiori, tutto così splendente come sembrava. Sapevamo che sarebbero arrivati gli errori, sapevamo che l’idillio e il “tutto perfetto” sarebbe giunto al termine prima o poi. Da quando Triple H ha preso le redini della direzione creativa della WWE si respira un’aria nuova, è innegabile. Wrestler di talento rimessi sotto contratto, show che hanno una direzione e una coerenza dall’inizio alla fine, un PPV con una costruzione. Sembrava veramente la ventata di aria fresca che la WWE aspettava da anni.


Probabilmente lo è davvero, perché un singolo evento non può di certo cancellare da solo tutte le cose positive di questo primo mese di gestione firmata Triple H. Ma il buon senso è venuto a mancare nel momento cruciale: quando era il momento di dare una svolta cruciale. Quando dovevi mettere fine al regno da (doppio) campione mondiale del tuo uomo di punta che da molto tempo non ha più niente da dire e rimane campione per inerzia, senza un perché. Quando doveva perdere nel main event di Clash at the Castle, senza se e senza ma. E invece sono mancate le palle di farlo.

Se siete dei mark di Roman Reigns o per qualche strano motivo avete un’impressione positiva del suo regno, vi consiglio di fermarvi qui con la lettura. Perché quanto successo nel main event di Clash at the Castle, show fino a quel momento assolutamente godibile pur con qualche pecca qua e là come comprensibile, è per me assolutamente imperdonabile. Avevi l’occasione perfetta. L’occasione perfetta per far finire il regno di Roman Reigns che ha smesso di avere senso da… già, da quando? Perché è molto difficile quantificare a questi ultimi 24 mesi e trovarvi un senso.

Per quanto mi riguarda, il regno è stato degno di essere chiamato tale durante 3 di questi 24 mesi: i tre mesi di feud con Kevin Owens. Perché quella, a mio modo di vedere le cose, è stata l’unica faida vera e autentica del regno di Reigns. Tre mesi in cui lo Universal Title aveva un valore, era al centro della narrazione, un tassello importante. Il resto è nebbia, non meglio definita. Wrestler part timer, gente senza lo status necessario, performer in procinto di lasciare la compagnia. Tutti dati in pasto a Reigns, che li ha divorati senza colpo ferire.

Ma ha sempre girato tutto intorno a Reigns. Lui, le sue tre o quattro catchphrase, le sue tre o quattro mosse. Mai il titolo al centro della narrazione. Mai che il titolo ne abbia beneficiato da quelle faide. Era tutta questione di far sembrare Roman Reigns un mostro imbattibile. Che può anche andar bene in un certo senso, perché se poi il mostro imbattibile viene battuto dalla persona giusta può essere il momento fondante di quest’ultima. Peccato che ci siano due grossi difetti in tutto ciò: il modo in cui è stato fatto e dove si voglia andare a parare.

Perché per il modo in cui è stato fatto, Reigns è tutt’altro che un mostro imbattibile. È uno che ogni qual volta il suo avversario conta qualcosa, quindi non è un Rey Mysterio o un Daniel Bryan o un Cesaro che erano ampiamente sacrificabili, vince in modo discutibile. Solitamente per merito della Bloodline. A volte completamente a caso, tipo il turnbuckle collassato sotto il peso dell’imponente Finn Balor. “Ma Roman Reigns è heel, che male c’è che vince in modo scorretto?”, sento già fioccare le critiche per quest’ultimo paragrafo che ho scritto. Tranquilli, ve lo spiego subito.

Perché la storia dei 300 spartani di Leonida contro l’esercito persiano di Serse funziona così bene? Perché è la storia di un’impresa impossibile, la storia di una lotta contro un nemico infinitamente più potente. Re Serse era visto come un dio, come racconta molto bene il film di Zack Snyder. E gli spartani alla fine perdono, nonostante i persiani abbiano bisogno del tradimento di uno dei loro per batterli. Ma qual è il loro ultimo atto? Dimostrare che Serse è vulnerabile ferendolo al volto. La loro impresa unisce la Grecia contro i persiani, che vengono battuti un anno dopo da una Grecia finalmente unita.

“Oh ma che palle questa storia, stiamo parlando di wrestling! Qualcosa di più terra terra?”, chiedono quelli che non capiscono che il wrestling racconta anch’esso una storia e non è per niente una disciplina terra terra. Più che altro perché altrimenti dovrebbero ammettere che non lo capiscono. Bene: esempio terra terra. Perché Avengers: End Game è il film più epico del Marvel Cinematic Universe, tanto che molti decretano che l’MCU sia morto lì e che quello che viene dopo sia irrilevante? Perché gli Avengers battono il loro nemico finale, Thanos, che sembra imbattibile.

In Infinity Wars Doctor Strange dice di aver visto 14.605.000 possibili finali della loro battaglia con Thanos. “Quanti ne abbiamo vinti?”, chiede Iron Man. “Uno”, è la laconica risposta. In End Game, quando un Iron Man ormai disperato guarda Doctor Strange, quest’ultimo si limita ad alzare il dito indice. E Iron Man capisce che deve fare quello che deve fare per battere Thanos. Ma la vittoria non arriva in modo così facile e gratuito, tanto che Iron Man la paga a caro prezzo: con la sua stessa vita.

Roman Reigns non è un nemico imbattibile come Thanos, né una divinità come Serse. L’unica divinità a cui mi sento di accostarlo è il “Wrestling God” JBL, date le innumerevoli similarità tra i loro regni titolati. Anche JBL aveva una stable alle spalle grazie alla quale ha vinto innumerevoli volte. Anche durante il suo regno il fato ha fatto la sua parte, come quando vince contro Undertaker solo perché la Clothesline di quest’ultimo gli fa sfondare il ring durante un Cage match e di conseguenza mantenere il titolo.

C’è però una differenza fondamentale: JBL era costruito per essere un campione immeritevole. Un campione codardo, che sa che non è al livello dei suoi contendenti, che rifugge ogni scontro in ogni modo. E che alla fine perde contro John Cena a Wrestlemania perché quest’ultimo è troppo più forte di lui e di tutti i suoi trucchi. Roman Reigns non è costruito così. Reigns è costruito come un campione dominante, al tavolo di commento viene descritto come un campione dominante, la storia che racconta parla di un campione dominante. Poi però assistiamo ai suoi match e di dominante non c’è niente.

C’è una chiara e netta dissonanza tra quello che allo spettatore viene detto e quello a cui assiste con i suoi occhi. Un po’ la stessa cosa che succede con Charlotte Flair quando ti ficcano in gola per anni che è la migliore wrestler di sempre quando non è nemmeno la migliore wrestler del loro roster. Un po’ come se la storia di Cappuccetto Rosso finisse con la bambina che invece di essere mangiata dal lupo e poi salvata dal cacciatore uccidesse lei stessa il lupo con una pistola a sangue freddo. Solo che con Reigns avviene il contrario, dato che si sgretola ogni qual volta sale sul ring o prende in mano il microfono per dire le stesse fesserie di sempre.

Non fa eccezione il match di Clash at the Castle, che distrugge completamente l’atmosfera. Sia perché i match a cui avevamo assistito fino a quel momento erano stati tutti positivi, mentre il main event è stato un disastro totale, sia perché Clash at the Castle non era un PPV come tutti gli altri. Era un PPV in Galles, nel Regno Unito. A vent’anni di distanza dall’ultimo PPV nel Regno Unito, a pochi giorni dal trentennale del giorno in cui British Bulldog compì l’impresa di battere Bret Hart e conquistare l’Intercontinental Title.

E l’avversario di Roman Reigns era Drew McIntyre. Che non solo è scozzese, ma che ha anche diversi conti in sospeso con il WWE Title, considerando che la sua grande ribalta di Wrestlemania 36 ha coinciso con l’inizio della pandemia. E che la sua grande vittoria titolata è avvenuta davanti a zero spettatori. Un wrestler che era in credito con la fortuna e anche con la WWE, dato che McIntyre (insieme a pochi altri eletti come Edge e Bayley e Sasha Banks) li ha letteralmente salvati tirando la carretta per il periodo più difficile della compagnia del passato recente.

A Clash at the Castle c’era un solo risultato utile: Drew McIntyre batte Roman Reigns e diventa il nuovo Undisputed WWE Universal Champion. Prendendosi la sua meritata ribalta. Restituendo i titoli agli show settimanali, schiodandoli dal divano di casa Reigns. Cominciando a ridare loro un valore, considerato che è ai minimi storici. E invece no, “Reigns wins LOL”. Una cosa che non ha nessun senso, da qualunque punto di vista la si voglia vedere e qualunque sia l’end game che vogliono raggiungere con il regno di Reigns. Sempre che ce ne sia uno già scritto. A questo punto non credo.

Clash at the Castle manca di una sola cosa: le palle di fare la scelta giusta. Sacrificando ancora una volta uno dei migliori performer, nonché uno dei più over, in una circostanza più unica che rara. Rinunciando alla possibilità di creare un altro momento iconico e memorabile come quello di Summerslam ’92, possibilmente ancora più iconico e memorabile. Mettendo su un match che ha rovinato la percezione di un evento altrimenti molto buono. E per cosa? Per continuare una narrazione che odora di vecchio e ammuffito già da almeno un anno e che non ha più nulla da offrire. Nemmeno all’eletto che infine avrà il privilegio di battere Reigns. E che si troverà tra le mani due gingilli resi insignificanti da una storia inesistente.

Lorenzo Pierleoni
Lorenzo Pierleonihttps://www.tuttowrestling.com/
Dicono che sia il vicedirettore di Tuttowrestling.com ma non ci crede tanto nemmeno lui, figuriamoci gli altri. Scrive da otto anni il 5 Star Frog Splash, per un totale di oltre 200 numeri. Cosa gli abbiano fatto di male gli utenti di TW per punirli così è ancora ignoto. A marzo 2020 si ritrova senza niente da fare, inizia un podcast e lo chiama The Whole Damn Show. Così, de botto, senza senso.
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