Primavera 1998. Il destino della WWF è sulle spalle di un solo uomo: Stone Cold Steve Austin. Il serpente a sonagli texano macina record su record, il suo merchandise vende come niente prima, i ratings si impennano, le arene sono regolarmente sold out, la striscia vincente di 88 settimane di dominio televisivo WCW interrotta, la guerra è nuovamente in pari ma il momentum sorride alla fed di Stamford. Il maggiore artefice è lui, l’ex midcarder WCW che desiderava soltanto un'occasione per divenire
la superstar che ha sempre saputo di essere.
La WWF ha calcolato con cautela le proprie mosse, avviando un mutamento graduale che ha trasformato il freddo killer del quadrato della rivalità con Bret Hart nel redneck trinca-birre allergico all’autorità che verrà consegnato alla storia. Nel mentre l’intera federazione è stata catapultata nell’Attitude Era, modellando un universo narrativo di cui l’antieroe Stone Cold è volto e incarnazione vivente, nonché, a partire da Mania XIV, finalmente WWF Champion. In un pro wrestling americano che per l’ultima volta assurge a cultura pop, fuori dal circolo ampio ma settoriale dei fan, la Austin-mania è irrefrenabile, tutti lo adorano, tutti lo vogliono, tutti vogliono essere Stone Cold. L’indole trasgressiva della cultura pop giovanile anni novanta è il terreno fertile per l’esplosione del Texas Rattlesnake, uno che non fa giri di parole ed è insensibile ad ogni tipo di costrizione. Tale aspetto del character è emerso nel corso del 1997 portandolo a incrociare già allora il suo boss, all’epoca ancora un innocuo commentatore tendente all’hype facile.
Stone Cold Will Never Be Employee Of The Month!
Infortunatosi nel malaugurato match con Owen Hart di Summerslam, Stone Cold rimane on screen e comincia a stunnerizzare arbitri, commentatori e ufficiali WWF,
fino al culmine del RAW al Madison Square Garden del 22 settembre. A cadere è McMahon, nella prima di tante stunner a venire. Sul momento è solo un episodio isolato, Austin è già Austin, ma McMahon si metterà in gioco in prima persona soltanto dalle Series in poi, quando le ben note vicende di Montreal lo costringeranno a rivelare il volto vero del promoter dietro la facciata pubblica. Ne nascerà, oculatamente, passo dopo passo senza forzare, l’owner heel destinato alla storia del pro-wrestling, d’ora in poi anche on screen e non solo dietro le quinte.
Destinati a collidere, Stone Cold e McMahon cozzano già sulla strada per il Fleet Center di Boston dove Austin va a prendersi il titolo mondiale e diviene, ufficialmente, l’asso della federazione. Solo allora, quando la frizione è inevitabile, la rivalità esplode definitivamente. La vittoria di Austin è la realizzazione del
corporate nightmare evocato da McMahon nelle settimane precedenti, il disastro di pubbliche relazioni da scongiurare ad ogni costo. Vince McMahon è ora Mr. McMahon, scende direttamente in campo e la promessa di un confronto tra il campione e il boss permette alla WWF di rivincere dopo quasi due anni una battaglia del lunedì sera. Stone Cold è ormai l’incarnazione vivente del sogno americano proibito: prendere a calci il proprio boss, farla franca e farsi una birra fredda per festeggiare.
Tutti ma non Austin, ripete McMahon, tutti ma non Austin. E allora perché non Mick Foley? Perché non l’ex partner del Texas Rattlesnake, deluso dallo stint in coppia con Funk e da un pubblico per cui non vale la pena fare questo mestiere (un nuovo turn sul pubblico, ciao Philadelphia), disposto a annullare sé stesso nelle promesse di gloria di Mr. McMahon? Foley reindossa i panni di Dude Love, la
face emersa proprio per far coppia con Stone Cold, e si trasforma nel burattino di McMahon. Si tratta del primo feud di un’ipotetica trilogia che vedrà Mick Foley nel giro di un paio d’anni affrontare le tre maggiori icone dell’era Attitude (Stone Cold, The Rock, Triple H) in una serie di programmi infinitamente più utili ai suoi avversari che a sé stesso.
Il primo incontro regala un buon match e una squalifica in favore di Dude Love, con Austin che si conta il pin da solo dopo aver colpito McMahon con una sediata. È il preludio per un rematch, incontro in cui Pat Patterson fungerà da ring announcer, Gerald Brisco da timekeeper e McMahon stesso da referee. L’ex campione intercontinentale e metà dei Brisco Brothers sono solo i primi di tanti nomi introdotti nel flusso narrativo trainante della federazione, così come Dude Love è soltanto il primo nome dei vari gettati contro Stone Cold da un McMahon non ancora elevatosi ai livelli demoniaci dei mesi successivi. La
hard way paventata dal Vince è solo all’inizio.
This is not resembling a wrestling match anymore!
In un mirabile esempio di come innalzare l’attesa per il momento in cui l’eroe farà il suo ingresso in scena, vi è una lunghissima introduzione degli
stooges: dapprima Pat Patterson annunciato da Howard Finkel, di poi lo stesso Patterson in qualità di ring announcer narra le gesta sportive e umane di Gerald Brisco e infine di McMahon. La folla freme, entra Dude Love, Patterson si rifiuta di annunciare Austin. Quando finalmente tocca al Rattlesnake è il tripudio. Austin consegna la cinta a un elettrizzato McMahon, prima che a fare il suo ingresso sia Undertaker, pronto a vegliare come un avvoltoio sullo svolgimento dell’incontro (Austin aveva guadagnato l’opportunità di avere qualcuno a bordo ring come condizione per scarcerare McMahon
in un memorabile episodio di RAW is WAR).
È un incontro che incapsula l’era Attitude. A partire dall’atmosfera di Milwaukee, ma potrebbe essere ovunque, i palazzetti vantano più cartelli che persone e il pubblico risponde anche al minimo spot. C’è il brawling selvaggio, e se ciò per il midcarding serve a coprire i palesi limiti del roster, nei main event è lo stile più adatto a trasporre in ring le intense storyline della fed, tramutando un incontro di wrestling in una rissa; una tipologia di incontro che in ECW si perde nei limiti dei performer e in WCW si scontra con gli argini di un prodotto family-friendly, ma nel ME di Stamford diventa furente intrattenimento. Tra una scorribanda fuori dal quadrato e l’altra Foley si riscopre improvvisamente profeta in patria, uno che certe cose le faceva da anni e ora si ritrova una fed che lo piazza nel ME e innalza il suo stile a modello universale. Manca circa un mese a
quel momento che lo consacrerà universalmente, ma non lo sa e certo non si risparmia nell’attesa.
Stone Cold, essenzialmente, instancabilmente Stone Cold. Abbandonato sia per necessità legate agli infortuni sia per conformità alla nuova epoca il vecchio stile, è ora un intenso scazzottatore con una padronanza di sé e del character con pochi eguali: Steve Williams non interpreta Stone Cold, è Stone Cold. Ciò che rende irresistibile Austin è la sua foga, la rabbia con cui prende a pugni ostacoli apparentemente insormontabili ma di cui non ha il minimo timore. In Stone Cold non c’è il dramma del face che scruta le difficoltà insormontabili e ripromette di superarle, Austin non è un underdog, non è il face che subisce e alla fine trionfa con la sua volontà. Stone Cold se subisce restituisce subito, è instancabile, è una minaccia che cammina, Austin non solo non ha paura di McMahon, non ne è minimamente intimorito, lo tratta alla pari o peggio. Lo prende a calci quando desidera, ed è pronto a prendere a calci qualsiasi cosa gli verrà posta davanti, senza troppi problemi. Eccolo allora, nelle fasi in cui è Dude Love a controllare, cercare l’apertura per una vampata, magari destinata a spegnersi subito ma esemplare per dirci chi o cosa sia Stone Cold Steve Austin.
L’overbooking finale è intrattenimento made in Stamford purissimo, collezione Attitude Era. Di fronte a una situazione apparentemente senza via d’uscita, Stone Cold emerge nel caos, disfacendo l’ennesimo piano della sua nemesi. McMahon e Austin, Austin e McMahon, tanto è bello vedere l’uno prendere a calci l’altro, tanto è bello vedere l’altro venir preso a calci.
Come una gag ricorrente che fa scattare la risata, nell’ambito di quella che probabilmente è la rivalità più
entertaining di sempre.